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Un’opera, quella dell’Alta Velocità, che ormai va
avanti per moto proprio.
Fra la retorica del “non bisogna restare indietro”
e interessi che c’entrano poco con un piano
razionale, non solo ferroviario, dei trasporti.
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Intervista a
Maria Rosa Vittadini su "Una
città", periodico di Forlì, n° 134 - dicembre 2005
Maria Rosa Vittadini è docente di Tecniche di analisi urbane e territoriali presso la Facoltà di Architettura di Venezia, Dipartimento di Pianificazione del territorio. Dal 1998 al 2002 è stata Direttore generale del Servizio Valutazione dell’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente. Fra gli altri incarichi ricoperti, è stata Presidente del Gruppo di lavoro “Ambiente e Territorio” nell’ambito della Commissione Intergovernativa italo-francese per la realizzazione della linea ferroviaria Torino-Lione (1996-2000).
Quando nasce l’idea dell’alta velocità
in Italia?
Il primo episodio di
linea ferroviaria ad alta velocità è stata la Roma-Firenze, nata da una legge
anticongiunturale del 1968 con due principali obiettivi: sostenere l’economia
del Paese attraverso una consistente spesa pubblica e mettere le ferrovie, dal
punto di vista del finanziamento, sullo stesso piano delle autostrade, che avevano
goduto fino a qual momento condizioni di assoluto favore. Bisogna ricordare
infatti che il finanziamento delle ferrovie, allora FS azienda di Stato,
richiedeva apposite leggi, nelle quali il costo di ciascuna opera era fissato
per norma. Poiché la forte inflazione di quei tempi erodeva velocemente il
valore del denaro, le somme stanziate non erano mai sufficienti a completare le
opere, che per lo più procedevano con esasperante lentezza, attraverso
successive leggi finanziamento.
Tutt’altra vicenda per
le autostrade. Queste erano finanziate mediante l’affidamento a un
concessionario che avrebbe dovuto ripagarsi attraverso il pedaggio nell’arco
trentennale di durata della concessione. Alle entrate da pedaggio si aggiungeva
un contributo pubblico a fondo perduto dell’ordine del 30-35%
dell’investimento; scaduti i trent’anni l’infrastruttura doveva tornare
nell’ordinaria amministrazione dello Stato. Ma qualora la concessionaria non
fosse stata in grado di far quadrare i bilanci, la garanzia dello Stato sui
mutui provvedeva a salvare la concessionaria dal fallimento. Questo meccanismo
garantiva quindi la realizzazione dell’autostrada nella sua completezza anche
quando i costi si rivelavano assai superiori a quelli previsti nel piano
finanziario oppure quando il traffico si rivelava assai inferiore. Questa
prassi di assoluta irresponsabilità delle concessionarie autostradali era così
diffusa e così preoccupante per l’equilibrio dei conti pubblici che negli anni
Settanta si ebbero, in rapida successione, diverse norme di blocco della
costruzione di nuove autostrade che sono rimaste in vigore fino a tutti gli
anni Novanta.
La modalità
“straordinaria” di finanziamento della linea ferroviaria Firenze-Roma nella
legge anticongiunturale del 1968 cercava di rincorrere il modello autostradale,
cosa che tuttavia non renderà più veloce la realizzazione della nuova linea,
durata circa vent’anni. Ancora è bene ricordare che gran parte delle difficoltà
e dei costi della Firenze-Roma derivavano dalla scelta di dedicare la nuova
linea a un traffico misto di treni passeggeri e merci. La presenza dei treni
merci richiedeva pendenze limitate, con un massimo di otto per mille, e dunque,
nell’ambiente orografico dell’Appennino centrale, una successione continua di
viadotti e gallerie. Quella scelta, pure assai costosa, individuava nel
trasporto delle merci una delle grandi priorità dell’ammodernamento ferroviario
e metteva l’Italia all’avanguardia nella innovazione tecnologica delle ferrovie
sulle lunghe distanze.
L’ impostazione “mista”
delle nuove linee ferroviarie veniva del tutto stravolta negli anni Ottanta, al
tempo della maturazione del complessivo progetto Alta Velocità. Di fronte alla
continua perdita di quote di mercato delle ferrovie italiane non erano
infrequenti teorizzazioni, non solo provocatorie, circa la razionalità di
abbandonare la ferrovia tradizionale, considerata una tecnologia del passato.
Secondo tali teorie l’unica componente che poteva essere salvata erano quei
5-6000 chilometri di ferrovia che raccordavano le grandi città e che erano,
allora come oggi, la sola parte intensamente usata dei circa 16.000 chilometri
di rete. Linee nuove, ad alte prestazioni (250-300 km/h), dedicate
esclusivamente ai passeggeri, avrebbero trovato una domanda disposta a pagare,
così da rendere remunerativo l’investimento. L’entrata in esercizio del TGV
francese, specializzato per il solo traffico passeggeri, forniva negli stessi
anni un riferimento di successo.
In questo clima
iniziale nasce il progetto italiano dell’Alta Velocità ferroviaria (AV),
formato dalla grande T delle linee da Torino a Venezia e da Milano a Napoli a
cui poi si era aggiunta la Milano-Genova. Le nuove linee ricalcavano idealmente
il tracciato delle linee forti della rete tradizionale, ma erano da esse tecnologicamente,
funzionalmente e societariamente separate: sul presupposto che l’infrastruttura
più moderna, ad alta velocità, si sarebbe ripagata con i proventi del traffico
e che per questo poteva essere affidata in concessione ad una società a
maggioranza di capitale privato: la TAV (Treno Alta Velocità, 60% di capitale
privato e 40% di capitale pubblico).
Il finanziamento
“modello autostradale” aveva fatto scuola.
Nella lunga
evoluzione del progetto si può leggere bene l’assoluta insussistenza del presupposto
del finanziamento privato e il faticoso affievolimento successivo dei criteri
di separatezza: i primi progetti erano nuove linee lontane da quelle esistenti,
con pochissimi raccordi, e pochissime fermate. La Torino-Milano-Venezia, ad
esempio, doveva permettere il passaggio di treni a 300 all’ora senza altre
fermate che in quelle tre città. Peccato che la domanda interessata a questo
modello di esercizio fosse irrilevante, mentre la domanda scambiata tra i nove
capoluoghi di provincia o di regione posti lungo la linea fosse assai intensa,
ma di percorrenza medio-breve, assai poco avvantaggiata dall’altissima velocità
prevista.
Man mano che il
progetto AV entrava nel merito dei problemi, nell’analisi della domanda, nel
problema dei costi, man mano che si capiva come le nuove linee si integravano
con il territorio e con il resto del sistema dei trasporti, l’impostazione
separata veniva meno. A questo contribuiva l’intenso dibattito sviluppato dai
tecnici più attenti, come Guglielmo Zambrini e dalla cultura ambientalista. Un
dibattito attento non solo agli aspetti ambientali, ma anche alle conseguenze
in materia di politica dei trasporti, di economia, di costi sociali. Sotto
l’insieme di queste spinte il progetto si è un po’ modificato. Perciò oggi non
si può dire che l’alta velocità sia totalmente separata. Le interconnessioni
con le principali città ci sono, anche se la separatezza sussiste ancora nella
differente tensione di alimentazione tra linee vecchie e linee nuove e nelle
caratteristiche dei tracciati che impediscono la completa inter operabilità per
il trasporto merci. Non c’è dubbio che se il progetto AV fosse nato con
l’obiettivo di far rendere al meglio i 16.000 chilometri di ferrovia esistenti,
sarebbe stato un progetto completamente diverso.
Nel 1997-1999
c’è stata una Verifica, attuata da una commissione composta da tecnici nominati
in parte dal Ministero e in parte della TAV, su richiesta del Parlamento. I
risultati non sono stati molto favorevoli.
Il progetto che si
era andato definendo, come ho detto, prevedeva un treno a 250-300 chilometri
all’ora, con pochissime interconnessioni, “intrinsecamente specializzato” per i
passeggeri e alimentato con una tensione diversa rispetto a quella delle linee
esistenti. Le merci potevano passare solo di notte e dovevano essere merci
leggere. La giustificazione di tali caratteristiche si basava ancora una volta
sul presupposto del finanziamento privato: c’è un mercato per queste alte
velocità e una domanda disposta a pagare. Poiché si tratta di un’impresa capace
di autofinanziarsi, la realizzazione dell’alta velocità non sottrae risorse ad
altre priorità del sistema dei trasporti, come il trasporto di merci o i
servizi per i passeggeri locali, ai quali anzi verranno lasciate le linee
esistenti
Nella verifica parlamentare molti di questi aspetti sono stati smentiti. Il re era nudo davvero: emerse che la velocità di 250-300 all’ora rispondeva più a un’ansia di primati che non a qualche reale necessità. La domanda di lunga e lunghissima percorrenza, quella interessata alle altissime velocità, era infatti assai modesta; sussistevano invece grandi quantità di domanda potenziale sulle distanze medie e brevi e soprattutto per le merci. Emerse anche che i costi erano fortemente sottostimati e che il finanziamento privato era privo di qualsiasi credibilità. Tuttavia la Verifica si inserì in un periodo in cui, per quanto riguardava la linea Milano-Napoli, i progetti erano molto avanzati ed era evidente la necessità di un aumento di capacità nella Milano-Bologna e nella Firenze-Bologna. Su quelle tratte la domanda c’era, anche se in gran parte formata da passeggeri di medio-breve distanza e da merci. Si temette che pretendere un rifacimento dei progetti avrebbe portato ad anni di ritardo. Si concordò quindi con la necessità di portare avanti i progetti iniziati, riservandosi di vedere nella gestione come migliorare le cose. Invece sulla Torino-Milano-Venezia, i cui progetti era molto meno avanzati, le conclusioni della Verifica indicavano la possibilità reale di modificare l’impostazione progettuale. Questa possibilità si infranse rapidamente contro l’enorme scoglio costituito dalla preoccupazione dei general contractors di fronte a qualunque cambiamento dei progetti. Infatti nuovi progetti avrebbero necessariamente riaperto la questione dell’affidamento mediante gara, mettendo in forse i contratti già stipulati senza alcuna gara. La difesa di questi interessi si tradusse nella difesa strenua del progetto, così che i cambiamenti furono davvero modesti e l’unica vera innovazione fu il passaggio terminologico da Alta Velocità ad Alta Capacità.
Ma qual è la
differenza fra l’alta capacità e l’alta velocità? Il progetto è sempre lo
stesso, ma cambia nome man mano che si scopre che i flussi prima di persone, e
poi di merci, non sono sufficienti a giustificarle. Fino ad avere l’impressione
che le esigenze di trasporto non abbiano alcun rilievo per la decisione di
costruire o meno l’opera.
Bisogna distinguere.
La Milano Bologna è una linea satura, porta già 220-230 treni al giorno. I
miglioramenti possibili sono marginali, ci vuole una nuova capacità. Una delle
cose più interessanti emerse dalla Verifica era la necessità di ragionare in
termini di rete e non di singole linee e l’individuazione delle necessità di
potenziamento sulla base di concrete evidenze di saturazione delle linee e dei
nodi. Secondo tale impostazione, ad esempio, non era necessario realizzare
subito tutta la Torino-Milano-Venezia, ma era assolutamente prioritario
potenziare il nodo da Torino fino a Chivasso, il nodo di Novara e la tratta
fino a Milano; la Milano-Brescia e il nodo intorno a Venezia. Ovvero quelle
tratte e quei nodi dove si sovrapponevano traffici di lunga e di breve distanza
e anche il traffico merci. Non bisogna mai dimenticare che la grande emergenza
del sistema nazionale dei trasporti sono piuttosto le aree metropolitane che i
trasporti a lunga distanza.
Per questi ultimi le
infrastrutture ci sono e basterebbe utilizzarle in maniera più efficiente.
Manca invece capacità nei nodi e nelle linee che servono le conurbazioni e i
grandi territori metropolitani: su quelle occorre investire prioritariamente.
Dunque il risultato della Verifica parlamentare fu che per la Milano-Napoli
sarebbe costato troppo tornare indietro, ma che invece era necessario cambiare
la logica della Torino-Venezia. Il governo in carica in quel momento, un
governo di centrosinistra, si oppose ferocemente a quello che chiamava “lo
spezzatino”, ovvero l’intervento sulle sole tratte e nodi prioritari.
Nonostante il fatto che sulla Torino-Milano, ad esempio, la tratta tra Chivasso
e Novara fosse assai scarica. Purtroppo il governo di centrosinistra decise,
per la Torino-Milano, di partire con la realizzazione della parte centrale, la
Torino-Novara-Malpensa, sotto l’egida delle Olimpiadi, ovvero proprio la parte
che serviva di meno.
Questa è una logica
perversa, ma è una logica persistente, che riecheggia in molte posizioni oggi
espresse sulla Torino-Lione. Posizioni basate su atmosfere e suggestioni,
inconsistenti ricami intorno alla parola “strategico”, e portate avanti,
purtroppo, da un amplissimo arco di politici di diverso orientamento, che non
si preoccupano affatto di capire qualcosa sulla consistenza della domanda,
sulla possibilità reale di trasferire traffico dalla strada alla ferrovia, sui
costi e sui benefici e sulla loro distribuzione. E, ovviamente, neppure sugli
impatti ambientali. Sono posizioni che raccontano di sogni, di atmosfere, non
di cose. “La linea è strategica per il futuro del Paese”: che cosa vuol dire?
“E’ strategica per portare dal sopra le Alpi al sotto le Alpi il traffico di
transito”: a me pare un danno piuttosto che un obiettivo. Qual è il disegno del
sistema dei trasporti che deve servire il sistema delle città, delle attività,
delle necessità di accesso, dell’insieme di condizioni e di obiettivi che
giustificano, per i trasporti, la parola “strategico”? Di questi problemi non
si parla: si parla solo di infrastrutture, di autostrade o di nuovi binari, di
buchi: si parte dall’opera. L’opera, senza il disegno al quale l’opera stessa
deve servire, è sempre programmaticamente sbagliata.
Di che cosa ha
bisogno l’Italia?
Anche ammesso che io
potessi, con estrema presunzione, ritenermi l’unico tecnico capace in questo
Paese, cosa molto lontana dalla realtà, la questione non è solo tecnica, e
forse neppure prevalentemente tecnica. E’ soprattutto una questione politica:
di disegno strategico-economico e territoriale, da costruire e da condividere
tra Stato e Regioni e tra Amministrazioni e collettività amministrate. Il fatto
che questo disegno non esista è il segno della disgregazione profonda di questo
Paese, che bisogna superare, perché senza questo siamo molto in difficoltà,
qualsiasi cosa ci si appresti a fare.
La Torino-Lione mi
sembra un buon esempio. Ho partecipato personalmente a una commissione
intergovernativa italo-francese, quando ero al Ministero dell’Ambiente, che
doveva fornire indicazioni sulla fattibilità della linea. Anzi, i governi non
avevano chiesto alla commissione di valutare la fattibilità, ma di valutare
quali caratteri dovesse avere quella linea per essere in grado di far
transitare 40 milioni di tonnellate l’anno di traffico merci. Non si trattava,
si badi bene, di valutare se esistevano 40 milioni di tonnellate l’anno, ma
quali erano le caratteristiche di una linea in grado di portarle. E poi i
governi hanno chiesto qualche buon consiglio su quando quella linea, che doveva
portare 40 milioni di tonnellate, fosse logicamente piazzabile nel tempo. Il
braccio operativo della Commissione era Alpetunnel, che svolgeva i lavori di
indagine, di geognostica, ecc. La Commissione aveva poi istituito tre gruppi di
lavoro che dovevano indirizzare e valutare i lavori di Alpetunnel. C’era il
gruppo “tunnel”, che si occupava dell’ingegneria dello scavo e dello smarino,
il gruppo “economia e finanza” che doveva verificare gli aspetti della domanda
e della copertura dei costi e un terzo gruppo “ambiente e territorio”, di cui
io ero presidente, e che doveva occuparsi degli aspetti ambientali. Tutte
persone perbene, capaci di fare il loro mestiere. Il parere finale della
Commissione, comunicato ai due governi nel Rapporto del 2000, non era quello di
non fare la linea. Il parere diceva invece che una linea tale da portare 40
milioni di tonnellate di merci era fattibile, ma che occorreva tener conto di
una serie importante di indicazioni: senza profonde modificazioni della
politica dei trasporti la nuova infrastruttura non sarebbe servita a nulla.
Perché a renderla utile non basta una politica meramente ferroviaria, ma una
politica globale del sistema dei trasporti, una politica di scoraggiamento e
tariffazione del traffico stradale, una politica di trasferimento dalla strada
alla ferrovia. Solo un insieme coerente di tali misure non ferroviarie
potrebbero rendere l’opera strategica. In assenza di questa politica - e in
questo momento la vedo assolutamente assente - si tratta solo di buttare via
soldi, di fare un’opera che condividerà la stessa triste sorte di tutti i
valichi ferroviari che oggi abbiamo a disposizione, cioè di valichi utilizzati
per il 30-40 per cento della loro potenzialità. E’ questo che vogliamo?
Cominciando a ragionare nel merito della parola strategicità si dovrebbe
arrivare a un disegno totalmente diverso. Questo non vuol dire che la Torino-Lione
non vada fatta. Vuol dire che può essere fatta solo all’interno di un disegno
che oggi non c’è. Vuol dire che oggi non è prioritaria, e tutta l’accelerazione
impressa a questo progetto è francamente incomprensibile.
Sempre stando
all’interno della vicenda della Val di Susa, che mi sembra molto emblematica,
bisogna fare un passo indietro sulle procedure di approvazione del progetto
previste dalla Legge Obiettivo, che sembrano fatte apposta per suscitare
reazioni delle popolazioni locali come quelle della Val di Susa. La legge
Obiettivo nasceva per sveltire i tempi per opere ritenute coralmente necessarie
e che avevano lungaggini incomprensibili per veti contrapposti. La Legge
Obiettivo costituiva quindi una procedura di contingentamento dei tempi per la
progettazione e per la valutazione di alcune poche opere, da realizzare in
fretta perché erano presenti tutte le condizioni di fattibilità, finanziamento
compreso. Ci saranno state tre o quattro opere, in tutto il Paese, a possedere
queste caratteristiche. Ebbene, la legge Obiettivo ha avviato progetti per
oltre duecento opere. Un numero elevatissimo, che di strategico non hanno
nulla. Però, proprio perché questa è la sua finalità, dal momento in cui
l’opera entra nell’elenco della legge Obiettivo, comincia una procedura che
oltre al contingentamento dei tempi, prevede anche l’accentramento di tutte le
procedure di valutazione ambientale al solo progetto preliminare. Procedure che
poi non saranno ripetute al momento del progetto definitivo. Si tratta di un autogol
anche dal punto di vista degli scopi della Legge Obiettivo, ovvero della
riduzione dei tempi. Il progetto della Val di Susa è emblematico: ti pare
possibile che il Cipe decida che quell’opera è ambientalmente compatibile e
dopo averlo deciso, vada a fare i sondaggi per vedere se c’è l’amianto? Questo
è incredibile. I sondaggi per vedere se c’è l’amianto devono essere fatti
nell’ambito del progetto preliminare, che poi va sottoposto alla valutazione
dell’impatto ambientale. Allora puoi coinvolgere la popolazione e mostrare che
se scavi lì con quell’accorgimento, con quella tecnologia, non c’è pericolo. Il
problema di come si prendono le decisioni, in questo modo, non solo non
migliora ma in qualche misura genera conflitto.
Si ha
l’impressione che questi profondi errori di democrazia non si vogliano affatto
modificare nel caso di un cambio di governo. Quando si ripete: non tutte le
leggi verranno cambiate, si ha la sensazione sgradevole che ci si impunterà sul
maggioritario o proporzionale, e cose del genere, ma che invece la legge
Obiettivo piaccia a troppi e faccia comodo al peggio di entrambe le coalizioni,
continuando una tradizione di scarsa trasparenza nel campo delle opere
pubbliche, in continuità con sistemi come quello delle concessionarie autostradali.
Terrei separati i due
piani, quello del finanziamento e quello delle decisioni e della
semplificazione delle procedure che la legge Obiettivo ha introdotto. Per
quanto riguarda la semplificazione delle procedure penso che tu abbia
perfettamente ragione: l’ha fatta il governo di destra ma poteva farla anche
quello di sinistra.
Tuttavia sono convinta che il prossimo governo di sinistra non possa usare questa legge così come è stata usata finora. Perché, al di là del disaccordo che si può avere su queste semplificazioni, il problema è di capire a quali opere esse possano essere applicate. Un’estensione così generalizzata di “strategicità” - tutte le opere sono ormai strategiche - porta al paradossale risultato che non ci sono più priorità, e che quindi l’ordine reale delle priorità, al momento di selezionare le cose da fare con le risorse comunque scarse, deriverà da qualche altra logica. Questa logica “altra” tuttavia non farà più parte di nessun piano né di nessuna decisione democraticamente trasparente: vinceranno gli interessi più forti. Credo che questa maniera di decidere sia un deficit di democrazia che nessun governo di sinistra possa permettersi. Il problema sarà un problema di scelta, di che cosa fare, e anche che cosa non fare. E soprattutto mettere a punto una visione, una condivisione tra territori, soggetti, interessi - non si devono demonizzare gli interessi - ma essi devono concorrere all’interesse di tutti e non sottrarre risorse collettive per l’interesse proprio.
Si tratta di un lavoro
difficile, che richiede davvero gli strumenti che io chiamo “piano” - non
saprei definirli altrimenti - perché sono convinta che il piano è il luogo in
cui si decide sull’uso delle risorse scarse e sulla risoluzione di conflitti,
che esistono sempre, per l’utilizzazione di tali risorse. Nel piano si deve
decidere esprimendo il massimo interesse per la collettività. Chiamiamolo
“Piano generale dei trasporti” o in qualunque altro modo, ma è la costruzione
di questo piano che manca. Perché il piano generale dei trasporti che avevamo
messo in pista nel 2001, che c’è ancora, era solo il primo passo verso un reale
insieme di decisioni, un reale piano. Il PGTL aveva proposto riforme, molte, e
tutte orientate in una sola direzione: l’indebolimento del potere monopolistico
dei protagonisti attuali della gestione e della realizzazione delle
infrastrutture di trasporto nel nostro Paese. Le proposte di riforma
riguardavano il sistema e le modalità di appalto delle infrastrutture e dei
servizi delle concessionarie autostradali, delle gestioni aereoportuali, delle
ferrovie. Tutti poteri che oggi giocano ognuno per sé, e che invece devono
essere ricondotti a un disegno comune. Il disegno, il piano, deve dire che cosa
deve essere fatto prima e perché. Nella mia visione delle cose la priorità
vera, la vera emergenza, è l’enorme ritardo su tutta la questione del
funzionamento dei trasporti delle città, delle aree metropolitane. Una
questione del resto fortemente connessa al problema delle infrastrutture per le
lunghe distanze. Si pensi solo al caso della tangenziale di Mestre, che è stata
chiamata la “strozzatura della Val Padana” perché tutto confluisce lì e crea
una congestione micidiale. La tangenziale sconta tutto il disordine insediativo
del territorio tra Mestre, Venezia, Padova, Treviso. La conurbazione veneziana
scarica camion e automobili sulla tangenziale, perché non c’è nessun’altra
alternativa di mobilità, nessun’altra attrezzatura per muoversi
convenientemente in un territorio che è fatto di dispersione, di articolazione,
di molti centri. L’enorme ritardo nel provvedere ai trasporti locali fa sì che
questo traffico vada a finire tutto sulle infrastrutture che abbiamo fatto per
andare lontano.
Allora abbiamo due
possibilità, o fare un’altra infrastruttura per andare lontano e attendere che
si riempia di movimenti che vanno vicino, perché non avremo fatto nient’altro,
oppure fare infrastrutture per muoversi sul territorio su distanze brevi e
scaricare in questo modo le infrastrutture che vanno lontano. Sono visioni completamente
diverse che richiedono confronti di scenari: misuriamo i risultati in termini
di costi, di effetti ambientali, di qualità della vita per le persone e per le
attività. Questi sono i ragionamenti che dobbiamo ancora fare. In mancanza di
questa prospettiva di Piano condivisa succede che quando si propone qualche
cosa, qualsiasi cosa, si scatena un’opposizione generalizzata da tutte le
parti. Data la situazione, è fatale che sia così.
Antonio
Tamburrino ha scritto, in un articolo sulla rivista “Il Mulino”, che il ritardo
dell’Italia nel dotarsi di un sistema di trasporto pubblico è segno del fatto
che è rimasta indietro nell’attuazione di una democrazia sostanziale, che
richiede un trasporto pubblico di massa, in grado di rendere funzionali le società.
Io avevo riposto
molte speranze nell’introduzione della valutazione ambientale dei piani dei
programmi (VAS) che è la direttiva europea del 2001, perché essa introduce una
maniera nuova di fare i piani, che devono essere omogeneamente orientati verso
la sostenibilità. Si tratta di una procedura di costruzione dei piani capace
realmente di orientare verso la sostenibilità le azioni che partono da tutti
gli attori che agiscono in tutti i settori: dalla gestione del territorio,
dalla creazione delle infrastrutture, dalla produzione di energia, alla
gestione agricola. La VAS orienta i contenuti di piano in maniera che vadano in
modo consapevole, strutturato, verso il raggiungimento degli obiettivi che la
collettività si pone. Questa a me sembrava una straordinaria occasione. Ne
abbiamo avute altre, che non hanno avuto gli esiti sperati.
La VAS mi pare oggi
uno strumento reale, e quindi adesso sono molto interessata ai problemi
dell’applicazione di questa nuova norma, a come le Regioni la stanno applicando,
a come lo Stato sta, anzi non sta, recependo la normativa. Quindi se dovessi
riassumere in uno slogan, direi: un piano territoriale dei trasporti
accompagnato da una valutazione ambientale strategica, insieme nazionale e
regionale. Questo è ciò che vorrei davvero impegnarmi a fare.
Tu hai partecipato
alla stesura del piano nazionale dei trasporti in vigore, che nella sua fase
preparatoria aveva per la prima volta cercato un coinvolgimento di tutti i
soggetti interessati e portato allo stesso tavolo Ministeri dei trasporti, dei
lavori pubblici e dell’ambiente, una cosa ovvia di per sé, ma mai fatta prima
in Italia. Quando è morto il piano dei trasporti?
Il PGTL era nato come
Piano di riforme e di disincrostazione del sistema dai monopoli che tutt’oggi caratterizzano
i nostri gestori e realizzatori di infrastrutture. Il Piano non era andato al
di là di proposte di riforma e della indicazione di criteri generalissimi, che
avrebbero dovuto trovare successive sedi normative e programmatorie di
applicazione. Verso la fine dell’elaborazione del Piano però si profilavano le
elezioni. Man mano che si avvicinava la data delle elezioni, si faceva sempre
più pressante l’esigenza politica di rendere concreto quel piano nell’unico
modo in cui oggi la nostra politica è capace di rendere concreti i piani, cioè
nell’elenco di infrastrutture, che non rispondevano in nessun modo alle
riforme, agli obiettivi proposti dal piano, o se rispondevano era casuale. Non
c’era nessuna connessione logica, ma l’elenco si allungava ogni giorno. Tanto è
vero che quando il Cipe nel 2001 lo approva, lo fa con una clausola molto
importante e che viene totalmente disattesa, che dice che tutti gli atti di
programmazione che nascono da quel piano avrebbero dovuto essere sottoposti a
una valutazione ambientale strategica, cosa che in realtà non succede mai.
Perché era del tutto casuale il risultato del fare tutte quelle infrastrutture
che non avevano nessuna relazione con ciò che stava nel piano.
Quindi, quando
Berlusconi è apparso con le sue matite colorate a Porta a Porta e ha disegnato
le sue opere, ha esposto in modo spettacolare progetti approvati dal centro
sinistra?
Molte opere di Berlusconi sono del piano dei trasporti. E la legge Obiettivo si è innestata sul piano esistente. Benché la legge Obiettivo sia una barzelletta perché dice che le sue norme si applicano a tutte le opere strategiche, dopodiché definisce le opere strategiche come “quelle inserite nella legge”. Ma il fatto che le opere strategiche sono “automatica variazione” del piano generale dei trasporti, che viene mantenuto in vita attraverso questa formulazione, vuol dire che non c’è più nessun piano. Quindi la legge Obiettivo segna la definitiva morte che però era già cominciata verso la fine della legislatura.
In Italia c’è
una convinzione abbastanza diffusa che le grandi opere non si facciano perché
sono utili al bene del Paese, ma a gruppi di interesse privati. Perché l’Unione
Europea si fa strumentalizzare a sostegno di un sistema così lontano dai suoi?
Vorrei spendere una
parola benevola, anche se è molto difficile, rispetto all’Unione Europea e al
suo ruolo. Se si va a vedere che cosa effettivamente dice la Ue, ad esempio del
corridoio da Lisbona a Kiev, non c’è nessuna presunzione che ci sia un traffico
pendolare fra queste due località. In realtà dice che quello è un corridoio,
cioè un asse sul quale uno dopo l’altro sono allineati luoghi interessanti,
pieni di persone e di attività. Poli che scambiano tra loro intensi movimenti
di merci e di persone, ma per lo più su distanze medie o brevi. Quindi il
corridoio è una direttrice importante e la Ue invita i Paesi ad apportare
miglioramenti in modo coordinato e coerente lungo quella direttrice, col
presupposto che tali miglioramenti servano principalmente le necessità di ciascuno
dei territori attraversati. Quindi il corridoio, in termini reali, è il
coordinamento di tanti interventi utili a ciascuno dei tanti poli e territori
attraversati: un luogo dove devono convivere con la massima efficienza
trasporti di brevi, di medie e di lunghe distanze.
Nel momento in cui,
rispondendo alle brevi o medie distanze si fa anche spazio a un percorso più
lungo e continuo, ben coordinato, che va da Lisbona a Kiev, ben venga: è una
ricaduta positiva. Credo che la nascita dei corridoi sia stata questa.
Dopodiché noi italiani, con una deformazione tipica, usiamo la Ue come una
clava per dire che è l’Europa a chiederci infrastrutture che bypassano gli
interessi locali: cioè esattamente il contrario della proposta della Ue. E’ un
problema di informazione, di rapporti fra stati e Ue e anche qui c’è una reale
carenza di democrazia. Quando i Ministri italiani vanno a implorare alla Ue che
venga inserita nelle priorità TEN (Trans European Network) la Torino-Lione,
vanno a contrastare una posizione Ue contraria a tale inserimento, vista la
scarsa utilità, gli alti costi e l’arretratezza dei progetti di questa linea.
Ma il Governo italiano si impone battendo i pugni sul tavolo e torna dicendo
che l’inserimento della Torino-Lione tra le priorità è una grande vittoria.
Invece è una sconfitta, per l’Europa e per la collettività italiana. Dopo ci
viene detto che la Torino-Lione è un interesse della UE e quindi chi si oppone
si oppone non solo all’Italia ma anche all’Europa. E’ un gioco troppo facile ed
esclusivamente imperniato su giochi mediatici e sulla “strategicità” da salotto
di cui si parlava prima.
Chi paga l’alta velocità?
Questo è un problema
grossissimo. All’inizio lo slogan era: esiste una domanda che richiede questi
servizi e quindi è disposta a pagarli. La proporzione prevista dei finanziatori
era: 60&% privato, che si sarebbe remunerato, e 40% a fondo perduto dello
stato, che non si sarebbe remunerato. Un affare privato con un finanziamento
anche statale, perché un interesse pubblico comunque c’è.
Man mano che la cosa
è andata avanti, la partecipazione delle banche e dei privati in TAV non c’è
stata, tanto è vero che oggi il 100% è pubblico. Ciò fa una grande differenza,
perché l’intervento di privati imprenditori fonda la sua razionalità sul
fattore “rischio”. Io rischio il mio capitale perché ritengo di trovare un
mercato che remuneri la mia impresa; poi se va male ci rimetto il mio capitale.
Negli investimenti pubblici al 100% questo non si può e non si deve fare, il
rischio non ci deve essere. Deve essere ben chiara la priorità degli obiettivi
che si vogliono raggiungere e deve essere dimostrato che l’intervento non solo
li raggiunge ma che non esistono altre soluzioni per ottenere ciò a costi più
bassi.
Ma il finanziamento
del 100% di TAV da parte dello Stato ci avrebbe condotto a “sforare” i
parametri di Maastricht. Allora nella finanza creativa del governo è stata
inventata Infrastrutture S.p.a, detta anche comunemente ISPA, una società per
azioni, la cui totalità delle azioni appartiene alla Cassa depositi e prestiti.
ISPA ha il compito di raccogliere fondi dal sistema bancario che passa ai
realizzatori dell’alta velocità, sul presupposto che quando le linee saranno
costruite, chi userà il treno pagherà e quindi l’intervento produrrà un
reddito. In attesa dell’entrata in esercizio delle linee la copertura degli
interessi, che comunque occorre pagare da subito, viene garantita completamente
dallo Stato. Il reddito derivante dall’esercizio dovrà essere dato a ISPA
perché possa restituire il capitale e gli interessi presi a prestito dal
sistema bancario; se le entrate non saranno sufficienti provvederà lo stato a
metterci il resto.
Questo meccanismo è
stato pensato sul presupposto che ISPA non facesse parte dello Stato, e quindi
l’indebitamento di ISPA per realizzare il sistema AV non sarebbe gravato sul
bilancio statale e quindi non avrebbe influenzato i parametri di Maastricht. Ma
Eurosat ha già informato ufficialmente di non essere disposto ad avallare
questo escamotage e di considerare l’indebitamento di ISPA come parte
dell’indebitamento dello Stato italiano: quindi il giochetto non funziona più.
Oggi ISPA ha a suo
carico il finanziamento delle linee ad alta velocità già in costruzione e i
conti della stessa società dicono che il rendimento delle linee coprirà circa
il 50% dell’investimento. Il che significa che il 50% è a carico pubblico. Io
credo che sarà meno del 50%, perché i costi sono in crescita costante. In
particolare per quanto riguarda la Milano-Genova e la Torino-Lione il meccanismo
ISPA fa prevedere una copertura futura del 15%: ISPA stessa si è rifiutata di
accollarsi il finanziamento di queste due opere. Infatti nella delibera Cipe di
approvazione della Torino-Lione c’è scritto che i finanziamenti provengono
direttamente dal bilancio dello Stato, che peraltro non li ha. Si tratta dunque
di un finanziamento del tutto teorico.
Occorre avere ben
chiaro che il meccanismo di finanza creativa messo in piedi con ISPA è una
specie di bomba a scoppio ritardato. Oggi noi stiamo costruendo le linee AV, ma
il costo per la collettività di queste opere si manifesterà dopo il 2010 quando
le opere saranno finite. Che cosa succederà quando bisognerà restituire quei
denari? E quando quei denari provocheranno livelli di indebitamento destabilizzanti?
Allora i nodi verranno al pettine e sarà evidente la selezione fra le cose che
sono state fatte e quelle che non si potranno più fare perché mancano i soldi.
In quel momento diverranno evidenti i costi della non democrazia. Non sarebbe meglio pensarci prima?