Il vino della valle ribelle
di Marco Arturi da Carta
del 4/6/11
http://www.carta.org/2011/06/il-vino-della-valle-ribelle/?article2pdf=1
Mattinata uggiosa,
mi dirigo verso il presidio No Tav della Maddalena di Chiomonte.
Sono giorni tesi: oggi scade il termine ultimo per l’inizio dei lavori legato
all’erogazione dei fondi europei, e dopo la prima notte di resistenza –
blindati della polizia e mezzi da lavoro fermati dalle barricate e respinti da
una sassaiola che ha il sapore di un’intifada alpina – la partita si gioca sui
nervi: ogni momento potrebbe essere quello buono per un nuovo attacco. Mi
arrampico per la strada dell’Avanà, che si chiama così perché è circondata da
vigne che in gran parte ospitano piante del più diffuso tra i vitigni autoctoni
della Val di Susa. E’ la prima volta che frequento questi luoghi con la luce
del giorno e finalmente posso vedere i vigneti inerpicati su pendenze da
vertigine, i terrazzamenti sostenuti dai muretti a secco tipici della
viticoltura di montagna. Uno spettacolo già visto altrove, in Valle d’Aosta,
alle Cinque Terre, in Valtellina, nei posti in cui per la viticoltura si può
spendere l’aggettivo «eroica».
Cerco la cantina di una
cooperativa che si chiama come il presidio, Clarea, e fatico un po’ a trovarla
fino a quando non mi rendo conto che sta all’interno dell’area del presidio
stesso, nella «Libera Repubblica della Maddalena». Piove, e molti resistenti
dormono nei sacchi a pelo piazzati sotto il porticato: devo scavalcarne
qualcuno per arrivare all’ingresso, dove mi aspetta uno dei soci, Andrea Turio.
Ho preso appuntamento con lui per fare di necessità virtù, per capire qualcosa
di questi vini che non conosco, anche se sono da queste parti per questioni che
con il vino c’entrano poco. Ma fino a un certo punto: il movimento No Tav ha
appena diffuso un comunicato in difesa del vino dell’alta Valle di Susa, nel quale
vengono rievocate le antichissime origini di questa viticoltura – introdotta,
pare, dagli etruschi – e si ricordano gli enormi sforzi fatti negli ultimi anni
per il suo recupero in seguito all’abbandono cominciato negli anni ’60. Il
documento termina secco: no al Tav che uccide il vino della valle, no al Tav
che uccide il lavoro dei viticoltori. Andrea mi spiega che il culmine
dell’abbandono dei vigneti è coinciso con la costruzione dell’autostrada,
un’opera devastante dal punto di vista ambientale, e che la storia rischia di
ripetersi. Sarebbe un peccato imperdonabile, dal momento che qui è in corso da
un quindicennio il recupero di diverse varietà autoctone: un patrimonio
ampelografico unico, una testimonianza di diversità irripetibile. Ma ancora di
più si tratta del ripristino di una cultura, perché, specie a Chiomonte, la
vigna ha sempre fatto parte del panorama paesaggistico quanto di quello umano:
ogni famiglia aveva il suo pezzetto di vigna, dal quale tirava fuori il suo
vino. Lo stesso vessillo del Comune parla chiaro: due tralci con due grappoli
d’uva e il motto «Jamais sans toi». Fino a un certo punto qui tutti sono nati
viticoltori. Poi, il progresso.
Cerco la conferma della vicenda
valsusina nei vini che Andrea – che è uno vero, me lo dicono il suo sguardo
montanaramente cazzuto e il fatto che ama chiaramente il vino che produce – mi
fa assaggiare in rapida successione. Provengono da vigne poste a
un’altezza che varia tra i 750 e 1000 metri, in un quadro caratterizzato da
terreni molto diversi anche a breve distanza, clima secco, buona ventilazione e
notevoli escursioni termiche. L’avanà, gemello dell’hibon noir che
cresce in Savoia e Val d’Isère, regala in purezza un vino scarico al colore,
caratterizzato da una trama tannica gentile e da un’acidità notevole,
bevibilissimo; spesso viene associato in uvaggio a un altro autoctono come il
becuét, alla neretta cuneese [che a dispetto del nome ormai si trova soltanto
più qui] e alla barbera, al fine di conferirgli colore e struttura. Il Becuét è
figlio di vigne giovani ma già lascia presagire un potenziale interessante:
corpo, personalità, mineralità più un’acidità portentosa, la stessa che ritrovo
nella Barbera, notevole, e nel Dolcetto.
C’è davvero qualcosa di ribelle in
questi vini – ne assaggerò altri nei giorni seguenti – che risiede nel loro
portamento fiero e nella loro immediatezza. Parlano un linguaggio sciolto,
privo di metafore e iperboli, vanno dritti al dunque; sono concepiti per
accompagnare il cibo e assolvono a questo compito in modo esemplare. Magari è
che chi li produce è abituato a vederli più come alimenti da consumare che come
prodotti di vendita, immagino.
Mentre scendo verso Torino mi
fermo in un bar; chiedo alla proprietaria se ha in vendita vini della zona, ma
mi dice di no. Credo che colga lo sconforto nella mia espressione, perché mi
dice «se vuole le faccio assaggiare quello di mio marito». Perché no le
dico, pensando che magari, che stai a vedere che. Tira fuori un bottiglione da
un litro e mezzo e mi versa il vino in un bicchiere inadeguato, ma va bene lo
stesso. Profumi non riesco a coglierne, ma in bocca ecco ancora
quell’immediatezza diretta. Credo sia becuét tagliato con qualcosa d’altro,
forse dolcetto, ma che importa: è buono sul serio. Chiedo alla signora se è possibile
averne qualche bottiglia, ma lei mi risponde che ne é rimasto troppo poco e che
comunque loro il vino non lo fanno per venderlo. Mentre sto per uscire mi dice
di aspettare, tira fuori da sotto il bancone un altro bottiglione e me lo
porge. Quanto le devo, chiedo, lei mi risponde sorridendo fiera «le ho
appena detto che non è in vendita». Si rassegnino, i signori della
Tav: in mezzo a queste vigne il loro treno non ci passerà mai.