Il treno in corsa senza freni
Reportage
dalla cabina di regia del «Sì Tav».
L'evento
mancato del Lingotto mostra un Pd senz'anima, tra lobby e interessi
di Marco Revelli da Il manifesto del 26/1/10
Chi, sulla base degli
annunci mediatici della vigilia sulla «mobilitazione Sì Tav», si fosse
aspettato a Torino una nuova «marcia dei 40.000», sarebbe rimasto deluso.
Domenica mattina al Lingotto non c'erano «le masse» e nemmeno «le avanguardie»
(se con questo si intendono le rappresentanze organizzate dei gruppi sociali
più dinamici e innovativi). C'era un pezzo, tutto sommato sottile anche se
abbastanza esteso, di «società politica». Di quell'aggregato, cioè, che si
struttura sull'interfaccia tra ceto amministrativo e sistema degli interessi,
fatto di politici di professione, associazioni di categoria, gruppi
professionali, lobbies, funzionariato locale, consiglieri d'amministrazione e
presidenti di partecipate, segretari di sezione, consulenti, mescolati ai
deputati del centro-sinistra e a qualche sindaco di cintura.
Deluso sarebbe stato, d'altra parte, anche chi avesse voluto
assistere all'autentico «evento politico» che quella manifestazione era andata
promettendo, e cioè al varo di quella che era stata presentata a gran voce come
la prima mobilitazione davvero bipartizan nel panorama politico italiano. La
discesa in campo del fronte del «fare», del grande partito trasversale del «Sì»
contro i professionisti del «No», di quelli che si battono «per» e non solo
«contro». Deluso perché l'«evento» è finito prima ancora di incominciare, con
la defezione dell'«altra parte»: ben tre dei sei promotori (l'On. Osvaldo
Napoli, il Sottosegretario ai Trasporti Mino Giachino e l' On. Walter Zanetta,
tutti del Pdl), richiamati all'ordine dal loro quartier generale e disciplinatamente
rientrati nei ranghi.
Al curioso, avvicinatosi al Lingotto con la voglia di capire che
cosa lì «si manifestasse», non è rimasto che lo sguardo sociologico. O
antropologico su quell'entità («maggioranza silenziosa» si è autodefinita)
manifestatasi fino ad allora solo attraverso i media, le dichiarazioni
ufficiali, le veline dei Tg e adesso, finalmente, ben visibile nell'ambito
conchiuso di uno spazio espositivo. Da questo punto di vista, il tratto più
significativo che offrivano le sette-ottocento persone radunate nella «sala
gialla» - la stessa da cui Veltroni aveva iniziato il suo viaggio verso la
segreteria del Pd - era di tipo anagrafico: erano, nella stragrande
maggioranza, al di sopra dei cinquanta, e forse anche di più (l'unica fila
anomala all'inizio, composta tutta da ragazzi, a metà mattinata si è
improvvisamente messa in movimento e, indossati gli abiti degli animatori di
strada, ha dato vita a un'ironica rappresentazione mimata di un trenino in
marcia verso il palco, in garbata contestazione subito bloccata dalla
security). Una folla omogenea, dunque, quantomeno per età. Una sala
generazionalmente uniforme. Poi però, a un'osservazione più attenta, il quadro
si faceva più mosso, più articolato, come articolato è, appunto, l'agglomerato
di gruppi e di forze che costituiscono oggi l'indecifrabile sostrato sociale
del centro-sinistra, rivelando in filigrana il reticolo delle sue linee di
frattura e di appartenenza, e gli elementi del suo composto instabile.
Intanto il dualismo tra palco e platea. Quello che è sfilato sul
palco, per circa due ore, era infatti l'intero repertorio dei poteri economici
e amministrativi cittadini. La rappresentanza della «Torino che conta», come è
stata definita su Repubblica: i presidenti dell'Unione industriale, dell'Associazione
piccola industria, Camera di Commercio, Ascom (commercianti), Confesercenti,
Confagricoltura, Cna (artigiani), Federazione autotrasportatori, a cui si
aggiungono un paio di sindacalisti (uno Uil, l'altro degli edili Cgil) oltre,
naturalmente, al Presidente della provincia di Torino Saitta e al sindaco
Chiamparino che ha concluso. In platea, invece, l'altro polo della struttura
sociale. Assente la borghesia torinese (viene annunciato un «messo» di
Marchionne, che però non si vede). Quasi assente il mondo delle professioni
liberali e dell'Università. Invisibile l'universo manageriale e tecnico, come
d'altra parte indecifrabili sono tutte le appartenenze produttive degli
ascoltatori. Quello che sembra dominare è un ceto in prevalenza medio-basso. A
occhio e croce l'estremo residuo della vecchia base del Pci, passata attraverso
tutte le metamorfosi seguite alla Bolognina lungo la trafila che dalla Cosa uno
e due va al Pds, ai Ds e infine al Pd, sublimando di tappa in tappa la propria
appartenenza, oltre la caduta della vecchia cultura identificante, in fedeltà
alle persone, agli antichi compagni sopravvissuti «in alto», in questa o quella
istituzione, in questa o quella ansa del nuovo partito. Gli «amici del
sindaco», o dei numerosi capi-corrente del puzzle «democratico».
Potrei sbagliarmi, ma non mi sembra che fossero molti, in quella
sala, i «cittadini», nel senso proprio del termine: cioè quelli intervenuti lì
in forma individuale, per informarsi e prendere posizione, in quanto «abitanti»
di un territorio e singoli appartenenti a una «comunità» cittadina. Quello che
prevaleva, invece, erano i piccoli gruppi. Le filiere corte delle fedeltà e
delle dipendenze. Le cerchie - i «giri», direbbe Gustavo Zagrebelsky, per
descrivere il reticolo oligarchico della democrazia contemporanea -, che
compongono la stratificazione sedimentata di tutti i patti elettorali
dell'ultimo ventennio, con la loro complicata architettura, le gerarchie e le
lealtà, i giochi di scambio e le relazioni di clientela, ma anche con i residui
di memoria, le risorse di fiducia, gli automatismi di esauste militanze. Si
spiegherebbe così la mancanza totale dell'aspetto informativo nell'assemblea:
non un numero, una cifra, una proiezione sui flussi di traffico attesi nel
lontano futuro in cui l'opera dovrebbe entrare in funzione (solo il conto alla
rovescia dell'architetto Virano, capo del contestato Osservatorio). Il vuoto di
documentazione a sostegno delle tesi proposte, e l'assenza di argomentazioni
tecniche. Si spiegherebbe d'altra parte la sostanziale passività, la mancanza
di entusiasmo, di quella sala, in paziente (e un po' distratto) ascolto delle
voci dal palco.
Se ne esce, alla fine, sapendone poco della Tav, e delle ragioni
di chi con tanta tenacia la vuole. Soprattutto del suo futuro (sarà dura
convincere, con le parole ascoltate al Lingotto, gli irsuti valsusini). Ma in
compenso ci si porta dietro qualche impressione in più sul presente del Partito
democratico. Sulla sua natura e composizione sociale. E sono impressioni che
non rassicurano, sulle sorti della campagna elettorale che in questo modo e con
questo stile, di fatto, al Lingotto è incominciata.