Estratto da Corruzione
ad Alta Velocità di F. Imposimato, G. Pisauro, S. Provisionato. Koinè nuove edizioni
[Cap. III – Il
prezzo della verità - pagg. 85-86; 88-89; 91]
E’ nella seconda metà del 1996, -
quando ormai l’indagine parlamentare voluta, promossa e portata a termine da
Imposimato giace negli archivi della Commissione antimafia – che la
magistratura di La Spezia, nelle figure di due sostituti procuratori, Alberto
Cardino e Silvio Franz, indagando su altre vicende soltanto all’apparenza non
collegate agli affari dell’Alta velocità, svela una trama ancora più
gigantesca, imbattendosi in un personaggio per nulla nuovo alle cronache di
Tangentopoli. Solo per dare un’idea della potenza di questo personaggio, di
lui, appena tre anni prima, era stata data questa definizione: “è appena un
gradino sotto a Dio”. A fornire questo ritratto, sintetico ma inequivocabile,
era stato il pm di punta della stessa procura milanese: Antonio Di Pietro che
con Pierfrancesco “Chicchi” Pacini Battaglia[1]
aveva avuto un breve incontro giudiziario – troppo breve, dicono alcuni – ma
molto significativo.
I magistrati spezzini erano incappati nelle faccende di Pacini Battaglia quasi per puro caso, seguendo il filo di un’inchiesta lunga e laboriosa, cominciata dal Gico della Guardia di Finanza di Firenze addirittura nell’ottobre del 1992.
Il 13 settembre del 1996 il gip Maria Cristina Failla, su richiesta dei due magistrati, emette un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di quattro persone: oltre a Pierfrancesco Pacini Battaglia, finiscono in manette Lorenzo Necci, amministratoare delegato delle Ferrovie dello Stato, Emo Danesi, imprenditore, ex parlamentare democristiano il cui nome era già comparso nelle liste della Loggia P2 di Licio Gelli ed Eliana Pensieroso, segretaria di Pacini Battaglia. Secondo l’accusa, le fonti di prova (costituite essenzialmente dalle intercettazioni ambientali) “dimostravano l’esistenza di un’associazione per delinquere, operante su tutto il territorio nazionale e all’estero, dedita alla gestione occulta di aziende a capitale pubblico, al fine di conseguire ingentissimi, ingiusti profitti”.
Promotori e organizzatori
dell’associazione per delinquere – sempre secondo La Spezia – Pierfrancesco
Pacini Battaglia ed Emo Danesi e come accoliti alcuni funzionari delle Ferrovie
dello Stato, tra cui spicca la figura di Lorenzo Necci oltre ad alcuni
imprenditori privati. Obiettivo del sodalizio criminale: la gestione occulta
delle società a capitale pubblico, facenti capo al comparto delle ferrovie,
cioè le Ferrovie dello Stato spa e le sue partecipate; la distrazione di somme
molto ingenti di denaro pubblico dalle stesse Ferrovie dello Stato spa e infine l’acquisizione di commesse da società
del gruppo Eni, dietro pagamento di tangenti.
Questa lobby affaristica,
per poter agire in maniera coperta, si era potuta giovare – sempre secondo la
magistratura spezzina -dell’aiuto di alcuni magistrati tra cui Giorgio
Castellucci, Orazio Savia e Roberto Napolitano, magistrati che avevano lavorato
a Roma. In manette il 17 settembre finiva anche l’avvocato Marcello Petrelli,
accusato di essere una sorta di “collegamento” tra Pacini Battaglia, Danesi e i
magistrati romani.
L’ordinanza della magistratura di
La Spezia si articola su più punti. Uno riguarda la “gestione occulta delle
società a capitale pubblico, facenti capo al comparto Ferrovie dello Stato e
partecipate, Società di trasporti e servizi spa, Metropolis spa, Tav
spa, Roma 2000 spa, Immobiliare Fs Lazio srl, Metropark
spa, Sitaf (Società Italiana Traforo Autostradale del Frejus) spa”
…
Si chiariscono anche i filoni su cui sta indagando la procura. Uno riguarda gli affari sporchi di Pacini Battaglia e Necci, le tangenti pagate per gli appalti di una miriade di società interessate ai progetti dell’Alta velocità ferroviaria, lo stesso settore di grandi opere di cui si era occupato, da parlamentare, Ferdinando Imposimato.
Il secondo affronta la corruzione
della magistratura romana, ampiamente foraggiata per chiudere un occhio sul
ruolo di collettore di tangenti svolto proprio da Pacini Battaglia.
Il terzo riguarda invece la Oto
Melara e un traffico d’armi.
Personaggio chiave di tutti e tre
i filoni sempre lui, sempre Pierfrancesco “Chicchi” Pacini Battaglia.
Ma basta ascoltare le intercettazioni
raccolte dagli uomini della Guardia di Finanza per accorgersi di due cose: se
il terzo filone dell’inchiesta è, per così dire, autonomo, riguarda cioè un
fatto specifico e ben circoscritto come il traffico d’armi in cui il
faccendiere toscano avrebbe svolto il ruolo di intermediatore con l’estero,
intascando parcelle superiori a quelle consentite dalla legge, i primi due
filoni d’inchiesta sono invece profondamente intrecciati tra loro. Anzi
interdipendenti.
I traffici di tangenti del primo
non sarebbero potuti avvenire senza la corruzione di magistrati disegnata nel
secondo. E viceversa. Gli affari quanto meno dubbi, per non dire sporchi,
diretti da Pacini Battaglia come fosse un abile direttore d’orchestra, che i
magistrati spezzini riescono a ricostruire, tassello dopo tassello,
intercettazione dopo intercettazione, documento bancario dopo documento
bancario, hanno un cuore.
Certo spaziano dall’Eni ad una
miriade di altre società, ma hanno il loro fulcro proprio negli affari
dell’Alta velocità ferroviaria.
Dal materiale raccolto dagli
inquirenti emerge infatti che, in concomitanza con ogni appalto, i vertici
delle Ferrovie dello Stato avviavano contatti con Pacini Battaglia, ma anche
con Emo Danesi i quali, a loro volta, mettevano in campo un complesso sistema
di conti bancari, spesso riconducibili a società off-shore, per gestire
le tangenti raccolte tra gli imprenditori interessati ai lavori.
…
Ma c’è qualcos’altro che sconcerta i magistrati di La Spezia Cardino e Franz. Qualcosa di molto più delicato e di molto più grave. La consapevolezza di stare indagando su fatti che già anni prima potevano essere scoperti e stroncati. Fatti sui quali, peraltro, aveva già messo le mani la magistratura di Milano e quella di Roma.
Senza però che nulla accadesse.
[1] Toscano,
53 anni al momento dell’arresto, il nome di Pacini Battaglia viene alla ribalta
nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla procura di Milano sui fondi neri
dell’Eni. Arrestato il 10 marzo del 1993, non fa neanche in tempo a conoscere
da vicino le patrie galere. Dopo 10 ore di interrogatorio condotto dal pubblico
ministero Antonio Di Pietro e dag gip Italo Ghitti, Pacini Battaglia viene
rimesso in libertà e torna a Ginevra, dove risiede. Cittadino svizzero, è
contitolare della Karfinco, una banca elvetica e – stando alle accuse della
magistratura milanese – proprio attraverso la sua banca avrebbe occultato i
fondi neri dell’Eni. …