ITALIA -
TRANSUMANZE MAFIOSE
L’uomo che al nord ha fatto cento passi
Reggio Emilia, città del tortello e delle Coop, scopre la 'ndrangheta e l'omertà e nelle polemiche finisce anche Brescello, il comune di don Camillo e Peppone. Ma c'è qualcuno che ha trovato il coraggio di denunciare. Partendo da un bar..
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di Paolo Casicci da Il Venerdì di Repubblica del
29/10/10 – pagg 79-82
Reggio emilia. I cento
passi che lo separano dal boss, Enrico Bini li ha percorsi d'un fiato. Una
sera piovosa, davanti a una piccola folla accorsa a scoprire la mafia, un uomo
di 55 anni, cresciuto a Coop e Pci, ha indicato un bar. «Io lì non ci vado
mica a prendere il caffè. È di uno spiantato, un uomo di paglia che va in
carcere a trovare il boss Grande Aracri».
Non siamo nella Cinisi
di Peppino Impastato. Siamo nella Bassa emiliana. E la palma, che con la sua
linea segnava per Leonardo Sciascia l'irresistibile ascesa della mafia, è
arrivata fin qui, a spandere un'ombra sinistra sulla patria di tortelli e
gnocco fritto. Dici Reggio Emilia e pensi alla cooperazione rossa, alle biblioteche
pubbliche e alle scuole dell'infanzia celebrate su Newsweek. Sessantatré
cosche e una lunga scia di auto incendiate sono l'altra faccia, ancora poco
nota, della medaglia. L'ultimo attentato, dieci proiettili contro la vetrina
di una pizzeria, ha precipitato giorni fa nel terrore Scandiano, alle porte del
capoluogo. Dietro c'è forse un giro di usura ed estorsione, ma la vittima non
pare voler collaborare all'inchiesta. «Al Sud la chiamano omertà. Qui
faticano ancora a dare un nome alle cose» mormora un inquirente.
Una terra, il
Reggiano, dove avrebbero il quartier generale certe 'ndrine partite
all'assalto dell'Aquila. Farebbero base qui, mica nell'altra Reggio.
Enrico Bini,
presidente della Camera di commercio locale, è l'uomo che la palma l'ha vista
salire. Lenta all'inizio, poi rapidissima grazie alla Tav. «I cantieri
dell'Alta velocità sono stati il volano delle infiltrazioni. La 'ndrangheta ha
fatto affari con i subappalti, andati ad aziende messe su con capitali
riciclati». Soprattutto aziende di trasporti. In centocinquanta lavorano
nella provincia, provenienti in gran parte dalla Calabria, senza aver
comunicato lo spostamento all'albo di competenza e prive dei certificati
previsti. Come annota Sara Di Antonio in Mafia, le mani sul nord, compendio
della Gomorra emiliana in uscita per l'editore (reggiano) Aliberti, «ci sono
ditte partite con cinque camion e arrivate a metterne su cinquecento in pochi
anni».
Il salvadanaio della
'ndrangheta. Così lo storico Antonio Nicaso definisce Reggio Emilia. Un
fenomeno che Bini conosce bene per avere guidato Transcoop, l'azienda che seguiva
il trasporto di inerti per i cantieri della Tav. «Gli imprenditori sospetti
venivano a proporsi di persona e con i tir al seguito. Portavano salumi in
omaggio e promettevano prezzi più bassi. Presentavano in pochi giorni documenti
che le imprese sane non riescono a produrre prima di settimane». Carte
truccate, aggiustate. «Se li cacciavi, rientravano dalla finestra cambiando
il nome alla ditta, e nei cantieri vedevi i mezzi e le facce di prima». Le
ultime denunce parlano di camionisti stranieri, specie irregolari, costretti a
trasportare droga coprendo la tratta Tirreno-Adriatico e ritorno in giornata e
con un carico sempre superiore al lecito.
Tutte accuse che Bini,
sul quale ora veglia una pattuglia di carabinieri, ha fatto verbalizzare alla
Commissione parlamentare antimafia, riunita a settembre, per la prima volta
nella storia, per discutere proprio del caso Reggio. «È stato un consiglio
di Marco Venturi, l'assessore siciliano già protagonista della stagione
antipizzo di Confindustria» dice Bini: «"Chiedi una seduta
straordinaria" m'ha detto "e fa' mettere tutto a verbale"».
A Reggio, come in
regione, la penetrazione della 'ndrangheta risale a diversi anni fa. Iniziò
tutto con il soggiorno obbligato inflitto ai boss per sradicarli dalle terre
d'origine. Una misura che già nel ‘74 allarmava Cesare Terranova: «Finiranno
col fecondare zone ancora estranee alla mafia» avvertì il giudice ucciso
cinque anni dopo da Cosa nostra. E così è stato. Relegati i calabresi a Cutro
town, l'enclave nel cuore della città, la 'ndrangheta è attecchita a
Reggio grazie alle connivenze e alle omertà che hanno saldato i criminali agli
imprenditori estorti (non solo meridionali, ormai), dando vita a una zona
grigia in cui è sempre più difficile distinguere gli onesti.
Da Cutro vengono i
Grande Aracri, la famiglia del boss contro il quale Bini ha scagliato la sua
accusa plateale. Una piovra che ha allungato i tentacoli in tutta la provincia
e fino a Salsomaggiore, la città di Miss Italia, e a lungo in guerra con gli
Arena di Isola Capo Rizzuto. A questi ultimi sarebbe riconducibile l'ordigno
collocato davanti all'Agenzia delle entrate di Sassuolo, «colpevole» di un accertamento
fiscale su una ditta della famiglia.
Oggi a Reggio Emilia
vivono circa ottomila calabresi. «La città è in mano loro» racconta un
agente immobiliare. «Calabresi sono gli operai che tirano su le case e
mandano avanti l'economia. Senza di loro, non lavorerebbe la manodopera locale
specializzata: artigiani e rifinitori reggiani resterebbero a spasso, se si
fermassero i calabresi».
Ma i calabresi non si fermano. Da tempo, racconta Di Antonio, a Reggio Emilia si costruisce a ritmi da boom. «In città ci sono settemila alloggi invenduti» spiega la giornalista: «II mattone cresce più del doppio della popolazione ed è pure destinato ad aumentare, visto che il nuovo Piano regolatore prevede ulteriore espansione». Eppure i prezzi non scendono: qui nessuno ha fretta di vendere. «L'obiettivo è riciclare» accusa Matteo Olivieri, il grillino che ha portato in Consiglio comunale il movimento del comico genovese. «Abbassare i prezzi significherebbe far calare i valori di mercato e, quindi, precludersi le speculazioni future. Meglio vendere le case complete di mobili o con un'auto in omaggio, come ha iniziato a fare qualcuno».
Negli anni, la lobby calabrese è cresciuta grazie anche a una serie di relazioni ufficiali. Il gemellaggio tra Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone, e quello di Isola Capo Rizzuto, per esempio, che ha fatto mugugnare la Lega Nord (il presidente nazionale, Alessandro Alessandri, è della vicina Guastalla). O la visita dei principali candidati a sindaco di Reggio alla processione del Santissimo Crocifisso di Cutro. Pare che di recente proprio il primo cittadino cutrese abbia preso il telefono per lamentarsi col collega reggiano Graziano Delrio perché la crisi starebbe riportando in Calabria troppa gente.
Solo folclore? Non
proprio. I voti delle comunità del sud fanno gola a tutti. E lasciano
briciole. Il manager Ivano Strozzi ricorda le resistenze incontrate per
tagliare «una ventina di partecipazioni inutili in società calabresi,
siciliane, perfino sudamericane», acquistate dai suoi predecessori al
timone dell'azienda locale per i rifiuti. Più banalmente, Bini invita a farsi
un giro sulla gloriosa via Emilia: «La gente inizia a sospettare di tutte
queste rotatorie cresciute come funghi. All'inizio servivano a fluidificare il
traffico, ora forse servono più a far lavorare certe aziende che le
costruiscono».
A inquietare
moltissimo è la saldatura che sembra essersi creata tra l'universo della
cooperazione e ditte vicine alle 'ndrine, sviscerata in un altro libro inchiesta,
Tra la via Emilia e il clan, a cura della Casa della legalità di Genova,
che circola in rete e nei sit-in antimafia come un samizdat. In
particolare, preoccupa il ruolo dei Mamone di Gioia Tauro, al centro di
un'informativa recente del prefetto di Genova, città dove sono molto attivi e
dove lavorano a bonifiche di terreni sui quali sono destinate a costruire le
Coop. Il nome dei Mamone appare nelle relazioni della Direzione distrettuale
antimafia tra quelli legati alle originarie cosche calabresi, ma il ramo
ligure della famiglia ha sempre respinto il collegamento.
E così Reggio oscilla tra vecchi miti e minacce nuovissime. Nel suo libro, Di Antonio cita Edmondo Berselli: l'intellettuale parlava di un modello emiliano che sfuma nel mito, forse perché «si vuoi mitizzare un sistema dandolo per scontato, come se non cambiasse l'economia e non potesse mai cambiare la politica». Ecco, osserva Bini, la paura è che, guardando al mito, sfugga ciò che lo sta deformando.
Ora l'emergenza non
può che essere questa mafia che nessuno avrebbe mai pensato di dover
fronteggiare. E ci sono le parole dell'uomo che al Nord ha fatto i suoi cento
passi: «La lotta alle mafie - dice Bini - non è più roba da eroi, ma
una questione di piccoli gesti quotidiani. Come allacciarsi le scarpe o
prendere un caffè». Nel bar giusto, naturalmente.