UNA
POLITICA
Marzo
2004
Gerardo Marletto (1961) è professore associato di economia
applicata all’Università di Sassari. Ha insegnato politica ed economia dei
trasporti al Politecnico di Milano e all’Università di Roma – Tor Vergata ed
stato per diversi anni responabile del centro studi di Federtrasporto. Negli
ultimi anni si è occupato prevalentemente delle relazioni tra trasporti,
ambiente e innovazione. Tra le sue ultime pubblicazioni: La politica
italiana dei trasporti: una rilettura critica, Economia pubblica n.6/2004; Una
politica industriale per un’altra mobilità, Economia Società Istituzioni
n.1/2004.
Indice
1. La qualità dello sviluppo: un’opzione generale per una nuova
politica economica................ 5
2. L’Europa come spazio privilegiato per una politica industriale selettiva
................................ 6
3. L’applicazione al caso dei
trasporti .......................................................................................………...… 7
3.1. Gli ambiti d’intervento
.....................................................…....................................................…………...….. 8
a) Potenziare il tpl tradizionale
...........................................................................................…………… 8
b) Promuovere i nuovi servizi urbani
(car sharing, taxi collettivo, bus on demand) ............... 9
c) Razionalizzare la logistica
urbana
…………........................................................................................ 9
d) Industrializzare il trasporto
merci
……….......................................................................................... 9
3.2. Gli strumenti
...............…….........................................................................................................….……. 10
a) I finanziamenti per progetti
………………................................................................................................ 10
b) La partecipazione a imprese
nascenti
………….................................................................................. 11
3.3. Le risorse
………..……................................................................................................................................ 12
a) Tassazione sulla proprietà di
moto, auto e camion
.........……………................................................. 12
b) Tassazione del gasolio non
professionale e del kerosene aereo
.........…….............................. 12
c) Tassazione delle rendite
immobiliari generate dagli interventi
...........…….............................. 12
d) Trasferimento da infrastrutture
declassate a non prioritarie .......……....................................... 12
4. Una “road map” verso
l’Agenzia europea per la mobilità....................................................... 13
a) Aumento dei trasferimenti statali
per il tpl ...........………............................................................. 13
b) Piano straordinario per i bus
......................………....................................................................... 13
c) Rifinanziamento della 211
............…………................................................................................... 14
d) Incremento dell’ICI per le
abitazioni nelle ZTL ............................……….................................. 14
e) I trasporti in Sviluppo Italia
.................……………............................................................................ 14
f) La proposta italiana di
un’Agenzia europea per la mobilità ..........................…….................... 14
1. La qualità dello sviluppo:
un’opzione generale per una nuova politica economica
La crisi attuale delle economie
industrializzate non è congiunturale, ma strutturale. E deve essere ricondotta
alla difficoltà di vendere prodotti per i quali non c'è domanda; sia perché si
tratta di beni il cui valore d'uso è ormai bassissimo, sia perché è stata
compressa la capacità d'acquisto dei consumatori-lavoratori. Anche l'uscita
dalla crisi deve essere di conseguenza strutturale.
Una politica economica non
restrittiva è cioè la condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre anche
creare le condizioni per un nuovo modello di sviluppo finalizzato ad aumentare
non i consumi in quanto tali, ma a migliorare la qualità della vita. Esempi di
questo tipo sono: l'abbandono del trasporto centrato sull'automobile privata,
il recupero delle città, la protezione e riqualificazione ambientale, i servizi
di assistenza e di cura, ecc.
L'attuale assetto globale
dell'economia è inoltre caratterizzato da una logica evidente di dominio: nei
confronti del Sud del mondo e nei confronti dell'ambiente. Il sistema economico
statunitense si regge ormai da un decennio sull'afflusso di capitali dal resto
del mondo, afflusso possibile grazie all'inestricabile intreccio tra ruolo del
dollaro come valuta di riferimento mondiale e logica unipolare di potenza
militare. Anche le migliori proposte di riformismo europeo sono caratterizzate
da un egoismo che trascura la posizione sempre peggiore dei paesi del terzo e
quarto mondo, esposti alle logiche di una liberalizzazione asimmetrica sempre a
loro svantaggio. Tutto questo in uno scenario in cui è ormai evidente che la
crisi ambientale non è una prospettiva lontana, ma uno sfacelo in corso.
Proprio dal Sud del mondo cresce una
domanda nuova di democrazia politica centrata sul controllo diretto della
propria vita. È una domanda che ha ormai preso consapevolezza che giustizia
sociale, giustizia ambientale e democrazia sono elementi inscindibili. La
rapina neo-coloniale nei confronti del Sud del mondo tocca infatti direttamente
i singoli individui: intaccando le capacità minime di accedere alle risorse
fondamentali (dall'acqua al cibo), degradando le dimensioni fondamentali della
vita sociale (a partire dal lavoro), riducendo gli spazi di democrazia e di
libertà.
È dunque
necessario passare dal concetto di sviluppo sostenibile a quello della
sovranità ambientale: proprio dalla concezione delle risorse naturali come bene
comune su cui si esercita la sovranità dei cittadini può venire una
rappresentazione più appropriata dello stato delle cose e delle iniziative
necessarie per tentare di migliorarlo. Ed è proprio il concetto di sovranità a
mettere in difficoltà anche il paradigma tanto diffuso dello sviluppo
sostenibile. Perché se il concetto di sovranità viene applicato anche alla
sfera economica, allora viene meno la concezione dell’economia come sfera a sé
stante (che diviene sostenibile se si rende compatibile con quella ambientale):
economia e ambiente sono (dovrebbero essere) entrambi oggetti della sovranità,
sono (dovrebbero essere) alcuni dei beni comuni che configurano lo spazio
pubblico su cui si fonda la cittadinanza.
In questo senso il concetto di sovranità dovrebbe essere applicato anche a elementi che non hanno direttamente lo status di risorsa naturale; penso ad esempio agli spazi urbani ed all’impatto che sugli spazi urbani può avere l’organizzazione della mobilità. Anche qui: la mobilità certamente non è un’attività economica che può essere lasciata nelle mani dell’individualismo economico (con tutti i disastri che sono sotto gli occhi di tutti), ma non è neanche solo un servizio pubblico da rendere più efficiente con più concorrenza (sebbene sotto il controllo pubblico). La mobilità è uno dei beni comuni che definiscono la cittadinanza. Pensare di recuperare alla qualità ed alla bellezza le nostre città con i tecnicismi trasportistici o con gli incentivi economici è illusorio; la sola strada possibile è quella di riaprire uno spazio pubblico in cui i cittadini possano tornare sovrani del proprio territorio e partecipare direttamente al ripensamento delle funzioni della mobilità.
2. L’Europa come spazio privilegiato
per una
politica industriale selettiva
In questo scenario l’iniziativa economica dell’Unione Europea
è stata sino ad oggi basata su due pilastri fondamentali:
·
l’innalzamento del mercato e della concorrenza a valori costituzionali;
·
la politica economica anti-inflattiva ed a carattere esclusivamente
restrittivo.
Questo approccio risulta sempre più in
forte contrasto con le oggettive potenzialità che una nuova iniziativa
economica europea potrebbe rivestire:
·
sotto il profilo interno, perché è proprio nella dimensione
continentale che si potrebbe raggiungere la “massa critica” necessaria per
sostenere un modello di sviluppo che generi meno danni sociali, ambientali
e sanitari;
·
sotto il profilo esterno, perché l’Unione europea potrebbe fare
di questo nuovo modello di sviluppo uno strumento per la ridefinizione delle
relazioni internazionali, per rendere più equo a livello planetario l’accesso
alle risorse e ridurre l’attuale tendenza verso il dominio unipolare e la
guerra permanente.
Proprio
alla scala europea potrebbe essere promosso un nuovo modello di sviluppo capace
di combinare: la riconversione ed il rilancio dei settori industriali oggi in
crisi per eccesso strutturale di capacità, un'espansione delle attività nei
settori che connotano la cittadinanza (recupero urbano, protezione ambientale,
trasporti sostenibili, alimentazione e salute, cultura, istruzione e ricerca),
la valorizzazione degli strumenti di incentivazione pubblica che sino ad oggi
hanno provocato una dispersione massiccia di risorse nazionali e comunitarie.
La
querelle che ha seguito le decisioni Monti sul finanziamento dello Stato
francese a favore dell’Alsthom ha però messo il dito nella piaga:
l’impossibilità, in Italia ed in Europa, di realizzare politiche industriali
selettive, che siano cioè in grado di promuovere lo sviluppo, finanziando ben
individuate imprese e ben individuati prodotti o servizi.
Privarsi delle politiche industriali
selettive non è infatti limitazione da poco. La gran parte delle economie
mondiali che hanno continuato a svilupparsi anche dopo la crisi petrolifera del
’73, lo ha fatto utilizzando sapientemente e spregiudicatamente proprio delle
politiche industriali selettive. Che la “messa in soffitta” delle politiche
industriali selettive sia stato un errore è del resto ormai anche argomento per
uscite sul Sole24Ore (anche se del sempre coraggioso Napoleone Colajanni) o per
successi editoriali (come il densissimo libretto di Luciano Gallino). Ma
allora, perché quello che si può fare con successo negli Stati Uniti, in
Giappone, in alcuni paesi scandinavi, nel sud-est asiatico, in Cina e in India,
non si può fare in Europa (e in Italia)?
La risposta credo sia amaramente semplice: la tecnocrazia di Bruxelles, nata col compito di creare il mercato europeo, ha alimentato di massicce dosi di pensiero economico ortodosso la propria ossessione per la concorrenza; dimenticandosi di tenere conto che meno concorrenza oggi può servire ad avere più sviluppo domani. Certo, in Italia ha pesato anche un fattore aggiuntivo: l’inadeguatezza culturale e scientifica del centro-sinistra. Qui la storia è nota, ma vale la pena di ricordarla: persi i riferimenti ad ideologie abbandonate tanto frettolosamente quanto superficialmente, ci si è bevuti la frottola che i sistemi economici funzionino grazie a mercati concorrenziali ed imprese efficienti. Così molti rappresentanti della sinistra, anche tra quelli non caduti preda del rimbambimento neo-liberista continuano a insistere che serve più ricerca, più formazione, più istruzione. Certo che servono e non vanno invece tagliate come propone la “banda bassotti” di Palazzo Chigi, ma la politica industriale selettiva è esattamente il contrario: finanziamenti consistenti, prolungati nel tempo, per ben individuate imprese, eventualmente (udite! udite!) anche pubbliche.
3.
L’applicazione al caso dei trasporti
È risaputo
che le attività di trasporto generano danni enormi in termini sanitari,
ambientali, di degrado del paesaggio e delle città. Solo in Italia sono 6.000 i
morti per incidenti; l’esposizione all’inquinamento atmosferico locale fa
“perdere” 8.000 vite; poi ci sono i feriti e i malati, il contributo
all’effetto-serra, la distruzione di risorse naturali ed urbane di pregio. Chi
crede che tutti questi effetti possano essere trasformati in valori economici è
arrivato a quantificare importi dell’ordine del 5-8% del prodotto nazionale.
Allo stesso tempo è ormai evidente
la difficoltà delle imprese italiane di reggere la competizione internazionale
anche nel settore dei trasporti. Interi settori – come la logistica ed il
terminalismo portuale – sono ormai parte integrante di grandi gruppi esteri;
altri settori – come l’autotrasporto di merci e di passeggeri – sono
caratterizzati da una tale parcellizzazione imprenditoriale che rende
impossibile qualsiasi strategia di crescita; in altri ancora – come quelli
aereo e ferroviario – le grandi imprese, ancora pubbliche, a malapena riescono
ad impostare strategie meramente difensive. Risultato: un Paese ad elevata
vocazione all’export ed al turismo sempre di più compra servizi di trasporto da
imprese estere. Persino la ritrovata centralità del Mediterraneo nei flussi
intercontinentali viene di fatto gestita da soggetti esteri, lasciando al
sistema italiano solo l’incombenza di gestire crescenti flussi di
attraversamento (che con nuove infrastrutture si vorrebbero addirittura
incentivare).
I problemi dunque ci sono e sono
seri.
Quali
risposte sono venute dalla sinistra di governo e da larga parte
dell’ambientalismo? Importare la concorrenza ed i suoi “benefici” anche nel
trasporto (e quindi: gare, privatizzazioni, “spezzatini” vari); applicare al
trasporto (specialmente a livello extraurbano) delle tasse più pesanti sugli
spostamenti stradali. Certo, sempre meglio che continuare a buttare fiumi di
danaro pubblico in grandi opere pubbliche talvolta inutili, quasi sempre
sproporzionate rispetto agli usi effettivi; meglio anche degli aiuti alla Fiat,
camuffati da incentivi all’ammodernamento del parco circolante (che in
conclusione si sono tradotti in più traffico, più effetto-serra e,
probabilmente, anche in più inquinamento urbano).
Resta da spiegare perché mercati
liberalizzati, servizi locali messi a gara, aumento dei pedaggi (ben lontani
dall’essere introdotti), debbano provocare una riduzione dei danni provocati
del trasporto. Per farlo bisogna infatti credere ad una doppia favola: che un
fenomeno complesso come la mobilità sia un mercato e – di nuovo – che in questo
supposto mercato sia sufficiente che i prezzi rappresentino tutti i costi
(anche quelli ambientali, sanitari, ecc.) perché si arrivi ad un uso efficiente
delle risorse scarse (come sono – in questa visione – l’ambiente, la salute, il
paesaggio, ecc.). Ma appunto di favole si tratta.
Se si
vuole ridurre drasticamente l’effetto negativo del trasporto sulla nostra vita
e su quella dell’ambiente in cui viviamo è necessario mettere mano ad un
processo di trasformazione radicale nel modo in cui il trasporto è oggi
prodotto e consumato.
Primo
imputato alla sbarra è l’autoproduzione: il fatto che la maggior parte degli
spostamenti di persone è con auto e motorini di proprietà, così come sono in
buona parte di proprietà delle imprese i camion che trasportano le merci.
L’autoproduzione è un sistema arcaico e inefficiente, non solo in termini
ambientali.
Un buon sistema di trasporto urbano
collettivo, affiancato da forme evolute di trasporto individuale come il “car
sharing” o come i taxi di Guido Viale, costerebbe sicuramente meno a ciascuno
di noi, creerebbe meno traffico e inquinamento, restituirebbe le città ad usi
più appropriati che non siano solo la sosta e la circolazione di veicoli. Lo
stesso vale per le merci; anche qui infatti, il trasporto collettivo delle
merci di più imprese (quella che nel gergo dei trasportisti si chiama
“integrazione dei carichi”) riduce i costi vivi e consente, ad imprese che
singolarmente non avrebbero potuto permetterselo, l’uso di trasporti marittimi
e ferroviari, meno inquinanti e meno congestionanti di quello stradale.
A questo
punto dovrebbe essere chiaro: per ridurre gli effetti nefasti del trasporto è
necessario un cambiamento radicale nella sua produzione e nel suo consumo. Ed è
anche evidente che non si tratta tanto di promuovere innovazioni tecnologiche
(20-30 milioni di auto, anche se a idrogeno, continueranno a degradare le
nostre città), quanto di favorire un cambiamento radicale nell’organizzazione
della mobilità.
Quanti
soldi servono per gestire una politica siffatta: tanti, tantissimi. Del resto
Salvatore Biasco ha di recente sottolineato la preferebilità macroeconomica di
un piano pubblico – gestito a livello europeo e finanziato con un volume di
risorse dello stesso ordine di grandezza di quelli che normalmente si stanziano
per le infrastrutture – finalizzato però ad aumentare direttamente la capacità
di spesa delle famiglie e delle imprese, meglio se in consumi che elevino il
livello delle conoscenze diffuse nel sistema.
Non si
capisce però perché questa operazione non possa essere mantenuta all’interno
del settore dei trasporti, dove certamente è necessario elevare il livello di
innovazione organizzativa e tecnologica:
·
per ridurre il ricorso all’autoproduzione del trasporto (le
auto di proprietà delle famiglie ed i camion in conto proprio delle aziende)
e favorire il ricorso a sistemi di trasporto meno costosi, perché organizzati
secondo criteri industriali e commerciali (trasporto locale collettivo, car
sharing, gestione integrata e multimodale della logistica, diffusione
della city logistics, ecc.);
·
per limitare l’impatto negativo che i trasporti hanno sulla
salute, sull’ambiente e sulla qualità del paesaggio urbano ed extra-urbano;
grazie, non solo alle innovazioni tecnologiche nei sistemi di propulsione
e in quelli di comunicazione, ma anche e soprattutto alle innovazioni organizzative – tipiche dei sistemi appena elencati
– tutti in grado di ridurre i cosiddetti “costi esterni” per unità di trasporto;
·
per innalzare il livello tecnologico e organizzativo del sistema
italiano dei trasporti, essendo riservata ad altri - ucraini o cinesi che
siano - la possibilità di competere grazie ai bassi costi, soprattutto del
lavoro.
Proviamo allora ad entrare nel merito.
3.1. Gli ambiti d’intervento
Una nuova politica del trasporto
deve essere innanzitutto orientata in quattro direzioni:
a) Potenziare il tpl (trasporto
pubblico locale) tradizionale
I sistemi tradizionali di tpl,
urbano ed extra-urbano, costituiscono l’elemento portante di una strategia di
contrasto alla diffusione di mezzi di trasporto di proprietà (auto e motorini).
Del tpl devono essere potenziate le caratteristiche qualitative fondamentali:
aumento della capillarità delle reti, aumento delle frequenze, aumento della
velocità commerciale. Importante è anche intervenire sugli aspetti
organizzativi e tecnologici, migliorando tutti gli aspetti dell’integrazione
(degli orari, delle infrastrutture, delle tariffe, delle informazioni) e
riducendo l’impatto ambientale dei mezzi. Servono dunque più autobus
(ecologici), ma non solo: servono anche più corsie preferenziali, adeguamento
delle reti su ferro. Più in generale, serve una grande campagna di
ripianificazione dei sistemi di trasporto pubblico locale. Anche per evitare il
diffuso rischio di assegnare a singoli progetti (nuovi tram e nuove metro) una
funzione salvifica che di per sé non hanno.
b) Promuovere
i nuovi servizi urbani (car sharing, taxi collettivo, bus on demand
È noto che il successo del mezzo di trasporto di proprietà
dipende anche dalle sue caratteristiche di flessibilità: si parte e si arriva
quando e da dove si vuole. Certo la congestione automobilistica crescente ha
reso meno effettive queste caratteristiche: il traffico dilata i tempi di
percorrenza in modo imprevedibile e la mancanza di parcheggi ci allontana
dall’ideale del “porta a porta”. Ma la cura spontanea è stata forse più
drammatica del male: tutti in motorino! Così ora ci dobbiamo preoccupare forse
di più dell’inquinamento acustico e atmosferico dei motorini (specie a due
tempi) che di quello delle automobili. Ma una via d’uscita più rispettosa della
salute pubblica e della bellezza delle città esiste; si tratta dei servizi a
domanda che riescono a garantire i benefici della flessibilità (senza gli
effetti perversi della proprietà) e dell’efficienza economica (senza le
rigidità del tpl tradizionale): il car sharing, che costituisce
un’alternativa alla proprietà delle seconde e terze auto; il taxi collettivo,
utile per offrire il servizio su domanda a costi più contenuti del taxi
tradizionale; l’autobus a domanda, completamento delle reti tradizionali nelle
aree più disperse e nelle fasce orarie a minor domanda.
c) Razionalizzare la logistica
urbana
Una parte consistente della mobilità
urbana (e dei suoi effetti negativi) dipende direttamente dalle attività di
distribuzione finale delle merci. Camion e furgoni – quasi sempre di proprietà
delle stesse imprese commerciali e con standard ecologici decisamente più bassi
dei TIR autostradali – contribuiscono ad aggravare la circolazione e la sosta,
quasi sempre con coefficienti di carico scandalosamente bassi. La
riorganizzazione radicale della distribuzione urbana delle merci – coinvolgendo
amministrazioni locali, imprese commerciali e imprese di logistica e di
trasporto – è la soluzione che consente contemporaneamente di migliorare
l’efficienza economica (grazie ad un maggior riempimento dei mezzi) ed ambientale
(grazie all’introduzione di flotte di mezzi a metano
o elettrici). Certamente non si
tratta di operazioni semplici; è infatti necessario reingegnerizzare i
processi, introducendo capacità imprenditoriali e manageriali oggi quasi
completamente assenti in questo settore. Non è sufficiente avere buone
intenzioni e risorse sufficienti, si deve anche avere la capacità di avviare e
accompagnare un radicale processo di innovazione organizzativa.
d) Industrializzare il trasporto
merci
Circa il 60% dei flussi
internazionali di merci e circa il 90% di quelli nazionale sono garantiti dal
trasporto stradale. Si tratta di percentuali eccessive, per l’impatto che
questa modalità ha in termini ambientali e in termini economici; è dunque condivisa
la necessità di aumentare il ricorso ad altre modalità di trasporto. Anche in
questo caso però l’operazione è molto più facile a dirsi che a farsi; non si
tratta infatti di organizzare l’apparentemente banale passaggio “dalla strada
alla rotaia” (eventualmente incentivato dai cambiamenti nei prezzi relativi),
ma di reingegnerizzare i processi del trasporto e della logistica (con effetti
che si riflettono sino alla produzione e alla commercializzazione) e di creare
le condizioni trasportistiche favorevoli all’uso della ferrovia e del mare (che
sono, in particolare, l’esistenza di flussi consistenti, stabili e bilanciati
di merce), per riservare al trasporto stradale il ruolo che gli è proprio (e
cioè le tratte iniziali e terminali necessarie per completare il “door to
door”). Anche in questo caso dunque servono capacità imprenditoriali e
manageriali (in larga parte già esistenti sul mercato), ma serve soprattutto un
cambiamento radicale nell’organizzazione della domanda di trasporto (che deve
rinunciare a pratiche tanto arcaiche quanto costose come il trasporto in conto
proprio, la vendita franco-fabbrica ed il ricorso a forme di trasporto “spot”).
Anche in questo caso si tratta dunque di un processo innovativo, che richiede i
suoi tempi e le sue risorse, ma può avere effetti benefici in termini sia
economici che ambientali (il trasporto integrato e multimodali costa di meno e
inquina di meno).
3.2. Gli strumenti
Un intervento di politica
industriale centrato sulle quattro linee appena esposte richiede sicuramente
l’attivazione di tutta la gamma degli strumenti a disposizione: introduzione di
nuove norme, fissazione di standard o divieti, interventi pubblici diretti
nella produzione dei servizi, attivazione di poste in entrata e in uscita dei bilanci
pubblici (in conto corrente e in conto capitale).
Qui preme sottolineare due aspetti
fondamentali che rappresentano una discontinuità significativa rispetto agli
approcci correnti, lasciando ad approfondimenti successivi la progettazione di
dettaglio dei singoli interventi.
a) I finanziamenti per progetti
Vanno superati due approcci opposti:
quello del sussidio diretto ad imprese (prevalentemente pubbliche) perché
raggiungano gli obiettivi delle politiche; quello degli incentivi indiretti
(prevalentemente alterando i prezzi) che dovrebbero consentire il riequilibrio
del mercato. Entrambi hanno dimostrato di essere inefficaci: da un lato perché
le imprese usano i sussidi anche per perseguire obiettivi propri e sono molto
difficilmente controllabili e sanzionabili; da un lato perché la revisione dei
segnali di prezzo non riesce a determinare cambiamenti strutturali del sistema,
come è invece necessario nel caso della mobilità.
L’alternativa deve essere allora
allo stesso tempo diretta e senza mediazioni. Il modello è quello di alcuni
grandi programmi europei – come Urban o, nel caso dei trasporti, Marco Polo: le
risorse sono messe a disposizione per raggiungere ben definiti obiettivi
(quindi non per obiettivi generici come potrebbe essere “l’innovazione” o
addirittura “gli investimenti”) e vengono erogate ai soggetti – imprese,
pubbliche amministrazioni, strutture non-profit – che presentano dei progetti
ritenuti coerenti con gli obiettivi prefissati, a prescindere degli strumenti
specifici proposti dal progetto (un modello quindi diverso da quello della
Legge 211 per le metropolitane, ma simile a quello del Piano Urbano per la
Mobilità proposto nel PGT ma mai attuato). Quindi, riassumendo, non si
finanziano soggetti (come nel caso dei sussidi alle imprese pubbliche), né
meccanismi presunti neutrali (come nel caso degli incentivi di prezzo), ma
“progetti”. Di questi si può – anzi, si deve – valutare l’efficacia, non solo
ex-ante ed ex-post, ma anche in itinere, allo scopo di dare corso agli
aggiustamenti eventualmente necessari (e non continuare a sprecare risorse in
progetti che si sono rivelati inadeguati, perché “ormai le risorse sono state
impegnate”).
Tornando
agli ambiti d’intervento appena proposti, potranno ad esempio essere accettati
come progetti meritevoli di un finanziamento:
·
il progetto di un Comune per la ripianificazione ed il potenziamento
del tpl;
·
il progetto di un consorzio di imprese private e di Enti locali
per realizzare un sistema di car sharing su base regionale;
·
il progetto di una cooperativa di imprese di trasporto e di
un’associazione di commercianti per riorganizzare la distribuzione urbana
delle merci;
·
il progetto di una grande impresa di logistica e di un’associazione
di imprese per rivedere la catena logistica di un particolare settore (o di
un particolare distretto industriale).
Si tratta in ogni caso di un
approccio relativamente semplice: delle risorse sono messe a disposizione in
relazione a degli specifici obiettivi; queste risorse vengono erogate a seguito
di un’iniziativa spontanea che viene dal sistema (pubblico o privato che sia,
non è rilevante in questa sede).
b) La partecipazione a imprese
nascenti
Il problema si pone quando il
sistema non è in grado di produrre iniziativa, non è in grado di elaborare e
realizzare progetti di revisione profonda e strutturale del sistema produttivo.
E, come si 3è sostenuto prima, nel settore della mobilità il problema è in
larga misura proprio questo: ciò che manca è proprio la capacità d’iniziativa;
manca la produzione di una nuova offerta capace di assecondare una nuova
domanda, oggi in larga parte latente. In termini più concreti: non ci sono (o
sono in numero insufficiente rispetto alle necessità di cambiamento) i soggetti
capaci di farsi carico della riorganizzazione del tpl di un comune o di una
provincia, di impostare un progetto di car sharing, di impiantare ex-novo un
nuovo sistema di logistica urbana, di rifondare sul trasporto multimodale
integrato una filiera logistica.
In questi casi c’è poco da fare, è necessario superare il tabù del non interventismo nell’economia. Non bastano neanche gli strumenti di politica industriale passiva (che cioè come quelli “per progetti” appena illustrati, restano in attesa di una domanda d’innovazione che viene dal sistema), bisogna ricorrere a strumenti di politica industriale attiva; quelli cioè che garantiscono la disponibilità di nuova offerta grazie ad un’azione imprenditoriale attivata dal soggetto pubblico.
In tutt’altro scenario,
un’operazione del genere ha caratterizzato la maturazione del sistema
industriale italiano; così come ha efficacemente raccontato Rolf Petri nella
sua “Storia economica d’Italia” (ma in realtà lo aveva già sostenuto in passato
Napoleone Colajanni) non ci sarebbe stato il “boom economico” degli anni ’60,
senza l’iniziativa della tecnocrazia pubblica dei Nitti, Menichella, Beneduce,
che sin dagli anni ’30 ha intenzionalmente usato l’intervento pubblico
nell’economia per creare nuova offerta, nuova impresa (riconoscendo appunto che
il problema non era un deficit quantitativo di domanda, ma un deficit
qualitativo di offerta e, in particolare, di iniziativa imprenditoriale). Il
tutto fu certamente possibile anche grazie ad una condizione autarchica che fu
strenuamente difesa anche dopo il periodo fascista (l’apertura ai mercati
internazionali fu infatti realizzata quando ormai il sistema italiano era
abbastanza strutturato per affrontare la concorrenza estera).
Pur tenendo conto di tutte le
differenze di contesto quell’approccio sta tornando necessario; estremizzando
volutamente, si può affermare che è necessario un “IRI della mobilità”: è cioè
necessario un intervento pubblico teso a realizzare direttamente nuova capacità
imprenditoriale nel settore dei trasporti. Questo approccio può essere
ammantato di novità con le definizioni della “collaborazione pubblico-privato”
o dell’incentivazione al “venture capital”; resta il fatto che non si può far
finta: comunque stiamo parlando di partecipazione del capitale pubblico nella
proprietà di (nuove) imprese di trasporto.
Una differenza fondamentale rispetto al modello “nittiano” merita di essere segnalata: la creazione d’impresa non si svolgerebbe come allora “nel deserto”, ma potrebbe sfruttare le capacità imprenditoriali ormai largamente disponibili nel sistema, ma non nel settore del trasporto e, in particolare, non nel trasporto italiano. Si tratta allora di reinventare un sistema di partecipazioni statali che sia in grado di stimolare l’ingresso nel settore del trasporto di capacità imprenditoriali ed innovative oggi disponibili in altri settori o in altri Paesi; in parte ciò sta già accadendo spontaneamente, basti guardare a quanto già prima citato per quanto riguarda l’ingresso di forze estere nel trasporto italiano, oppure all’interesse verso il trasporto che dimostrano soggetti di altri settori (come Benetton, Lucchini, IMI-S.Paolo). L’obiettivo è riuscire a riorientare questi processi spontanei verso l’obiettivo della revisione strutturale del trasporto di merci e di persone (oggi infatti le forze spontanee puntano brutalmente allo sfruttamento delle rendite che derivano dalla posizione del nostro territorio o dall’esistenza di residui monopoli).
3.3. Le risorse
Si è detto prima che per puntare
all’obiettivo ambizioso del cambiamento strutturale del sistema della mobilità
è necessario avere a disposizione risorse consistenti e per un lungo periodo di
tempo. Pur essendo consapevoli che quello del pareggio del bilancio pubblico è
un mito senza reali fondamenti economici, pare opportuno individuare anche
alcune fonti specificamente finalizzate al finanziamento di una nuova politica
dei trasporti. Non fosse altro che per insistere su un punto; tutti gli strumenti
necessari devono essere attivati e tutti nella stessa direzione.
Qui le proposte non possono che
essere del tutto sommarie, meritevoli di ben altri approfondimenti.
a) Tassazione sulla proprietà di
moto, auto e camion
Anche in
questo caso un tabù deve essere “preso di petto”: se il problema è l’eccessivo
ricorso alla proprietà di mezzi di trasporto stradali, allora perché
disincentivarne l’uso (ad esempio con maggiori tasse sui carburanti o sui
pedaggi) o non direttamente la proprietà? Una qualche forma di ICI sulle
automobili e su motorini deve essere introdotta, eventualmente modulata sulla
base delle caratteristiche della città di residenza. Altrimenti continueremo a
chiederci perché il parco mezzi continua ad aumentare. Certo c’è un problema che
si chiama Fiat; se ne può almeno parlare?
b) Tassazione del gasolio non
professionale e del kerosene aereo
Nella
“babele” della tassazione dei carburanti, ci sono alcune anomalie che non
possiamo continuare a ignorare. Due tra le fonti più dannose di inquinamento
atmosferico e di danni alla salute – il gasolio per autotrazione ed il kerosene
aereo – continuano a beneficiare di agevolazioni ed esenzioni assolutamente
senza senso. Un intervento in questi due ambiti – tra l’altro già auspicato dal
Libro Bianco della Commissione Europea del 2001 – è dunque possibile.
c) Tassazione delle rendite
immobiliari generate dagli interventi
Molti benefici degli interventi di
potenziamento e di miglioramento dei sistemi di trasporto non si trasferiscono
agli utenti, ma vengono incorporate nelle rendite fondiarie e immobiliari.
Succede nel caso di una nuova strada di scorrimento, di una nuova metropolitana
e persino nella creazione di zone a traffico limitato. La formazione di queste
rendite deve essere pesantemente colpita da una tassazione specifica (come del
resto già accade in altre esperienze estere, europee e non).
d) Trasferimento da
infrastrutture declassate a non prioritarie
È risaputo che molte nuove
infrastrutture previste dagli strumenti di programmazione nazionale ed europeo
sono d’interesse solo per i costruttori e per pochi altri; è questo il caso dei
nuovi trafori ferroviari del Brennero e del Frejus, del ponte sullo Stretto di
Messina, per citare solo le più importanti. Questi progetti devono essere
declassati e le loro già stanziate o da stanziare dirottate verso il
finanziamento dei progetti e delle partecipazioni a nuove imprese necessari per
la nuova mobilità
4. Una “road map” verso l’Agenzia
europea
per la mobilità
Ci sono pochi dubbi. Un intervento
per la nuova mobilità impostato sugli elementi sin quiillustrato non può che
essere realizzato su scala europea. È a questo livello infatti che può essere
raggiunta la “massa critica” per innescare i necessari processi di cambiamento
strutturale nei sistemidi trasporto. È a livello europeo che si possono realizzare
le condizioni perché nuova offerta e nuova domanda si sviluppino senza eccessivi
disequilibri. È a livello europeo che devono essere aggregate le risorse finanziarie
e attivate le capacità di gestire una politica così complessa ed ambiziosa.
L’idea è costituire un’“Agenzia
europea per la mobilità” che abbia la capacità gestionali per governare una
nuova politica della mobilità, centrata sulla gestione di ingenti risorse,
sulla selezione e sul monitoraggio di progetti, sulla partecipazione a nuove
iniziative imprenditoriali. Si tratta di un obiettivo da dichiarare subito –
non fosse altro che per catalizzare l’attenzione – ma che deve essere
perseguito verosimilmente nel medio periodo. Nel frattempo però si deve
lavorare in quella direzione, con obiettivi intermedi meno ambiziosi e alla
scala nazionale, ma in ogni caso evitando soprattutto di realizzare azioni
incoerenti con gli obiettivi di medio termine. In questo senso si può parlare
di una “road map verso l’Agenzia europea per la mobilità”.
a) Aumento dei trasferimenti
statali per il tpl
Il sistema del trasporto locale è
stato negli ultimi anni sottoposto ad una severa cura di riorganizzazione e
messa in efficienza. Si è però ormai arrivati ad un risultato paradossale, le
risorse per il sistema del tpl sono ormai insufficienti e non si può neanche
pensare che tali risorse debbano essere integrate dagli Enti locali che, in
assenza di una reale autonomia fiscale, dovrebbero farlo sottraendole ad altre
linee di spesa (a partire dalla sanità). In attesa di interventi europei più
consistenti e di un reale federalismo fiscale, è allora necessario attivare una
linea di spesa statale straordinaria che – per quanto garantita da meccanismi
severi di assegnazione e di verifica – consenta al tpl di ritrovare slancio.
b) Piano straordinario per i bus
Anche le incentivazioni alla
sostituzione delle automobili hanno sortito un effetto paradossale. In molti
casi ormai un passeggero inquina più in autobus che in macchina, nonostante
l’ovviamente diverso livello di riempimento di bus e auto. Lo svecchiamento
delle flotte di autobus realizzato tra il 2000 ed il 2002 è stato infatti
realizzato in larga parte ricorrendo al diesel tradizionale (ben che vada
alimentato dal “gasolio bianco”). Molto resta da fare dunque per favorire la
diffusione di bus diesel di ultima generazione (con “trappola del particolato”
di serie), di bus a metano e di bus ibridi. Specifica attenzione dovrebbe
essere dedicata ai temi del rumore e delle vibrazioni. È da chiedersi se un
“piano straordinario per i bus” non dovrebbe essere coordinato da una centrale
d’acquisto nazionale, non solo al fine di spuntare condizioni economiche
migliori dai produttori, ma anche per indirizzarne esplicitamente lo sviluppo
di nuove soluzioni tecnologiche.
c) Rifinanziamento della 211
La
costruzione di nuove metropolitane può essere giustamente contestata; difatti –
come sostiene Viale – si tratta di una soluzione costosissima, necessaria solo
perché ci si è rassegnati all’occupazione della superficie da parte delle
automobili. In tante parti del mondo si scopre che risultati non distanti da
quelli garantiti dai sistemi su ferro si possono ottenere con linee di autobus
espressa in sede completamente protetta. Ciononostante, il ritardo italiano sul
fronte delle metropolitane è talmente ampio che definanziare la Legge 211 come
ha fatto Tremonti non è certamente una soluzione. Anche in questo caso qualcosa
deve essere fatto, sottraendo le risorse necessarie da altri interventi
infrastrutturali meno importanti.
d) Incremento dell’ICI per le
abitazioni nelle ZTL
La relazione tra interventi per i
trasporti e crescita della rendita urbana è stata già sottolineata prima. Una
delle sue manifestazioni più irritanti riguarda i centri storici, dove la
diffusione di zone con forti limitazioni della circolazione e della sosta, di fatto
“regala” ai proprietari degli immobili un “bonus” almeno pari al costo di un
parcheggio gratuito in zone di alto pregio. Che azioni pubbliche realizzate per
il benessere pubblico si traducano in parte in aumento di ricchezza privata non
è più tollerabile: la rendita deve essere colpita. Di nuovo, non con mezzi
indiretti (come il road pricing o il park pricing esteso ai residenti), ma
diretti: ad esempio con l’aumento dell’aliquota ICI per le abitazioni che
ricadono nelle ZTL. Per una volta si tratta di uno strumento che è già nella
disponibilità degli Enti locali.
e) I trasporti in Sviluppo Italia
Come già evidenziato prima in molti
casi lo sviluppo di un nuovo sistema di mobilità è bloccato dall’inadeguatezza
qualitativa della produzione, alla domanda potenziale di nuovi servizi non
risponde adeguatamente l’offerta. Sono dunque insufficienti azioni di
incentivazione alla produzione (e ancor di più al consumo): le imprese e gli
imprenditori che dovrebbero produrre inuovi servizi e sistemi di trasporto
semplicemente non esistono. È allora necessaria un’azione di vera e propria
“fertilizzazione imprenditoriale” attraverso un intervento pubblico che punti
alla creazione di nuove imprese. Gli strumenti sono tanti e tutti noti
(sostegno all’imprenditoria giovanile; incubatori e parchi
scientifico-tecnologici; venture capital; ecc.), si tratta “solo” di adattarli
al sistema del trasporto e della logistica. È probabilmente corretto farlo
valorizzando le strutture e le persone che questo mestiere lo fanno già, a
partire da Sviluppo Italia (e dalle esperienze che esso ha avuto “in eredità”).
Ed è realistico partire dalla messa a sistema degli strumenti e delle risorse
esistenti (prevalentemente europei), cominciando dal “Marco Polo” e dalle
“Autostrade del Mare”e puntando a sviluppare nuove azioni ad hoc finalizzate
alla logistica di filiera e di distretto.
f) La proposta italiana di
un’Agenzia europea per la mobilità
Infine non si può trascurare la
necessità di lanciare, promuovere, diffondere l’idea di fondo: la costituzione
di una nuova mobilità rappresenta una discontinuità profonda nel sistema dei
trasporti. Soltanto a livello europeo possono essere trovate le condizioni
politiche ed economiche per raggiungere la “massa critica” necessaria per affrontare
un percorso innovativo di questo tipo. Un’Agenzia europea per la mobilità deve
essere dunque proposta in questa chiave: come lo strumento necessario per
rivedere profondamente gli obiettivi della politica dei trasporti europea e
potenziarne le risorse e gli strumenti.