Un altro linguaggio contro
gli imprenditori della paura
di Marco Revelli da Il Manifesto del 17/2/07 - pag.2
Hanno lavorato duro,
gli imprenditori della paura. Ci hanno dato dentro per una settimana e più per
creare intorno alla manifestazione di Vicenza un clima di inquietudine, di
sospetto, di minaccia. Frugando tra le pieghe della cronaca più o meno nera,
dalla violenza del tifo ultras ai covi BR ai grumi di rancore metropolitano,
mettendo insieme quello che condivide solo lo spazio virtuale di una prima
pagina di quotidiano, o il palinsesto di un tg. E «montandolo» in una
narrazione orrifica - l'unica ad aver «corso legale» nel circuito
politico-mediatico dominante - che ha un solo scopo: avvertire le persone
normali di starsene alla larga, nel loro privato, in casa, perché la
partecipazione è un rischio. Un disturbo per il manovratore, ma soprattutto un
pericolo per chi vi s'arrischia. Nemmeno il ministro dell'interno - che a buon
senso dovrebbe essere uno che rassicura: la figura cui compete il compito
istituzionale di assicurare la pacifica convivenza e l'esercizio dei diritti -
si è sottratto a questo ruolo seminando a piene mani inquietudini, alludendo a
oscure minacce, sussurrando profezie che hanno un po' l'aria di potersi
autoadempiere (ricordate Genova?).
D'altra parte questa è la logica che pervade l'universo
politico globale oggi, e il suo perverso rapporto con la società nel suo
complesso: questa tendenza sistematica a quotare la paura alla borsa della
politica. A fare della paura un instrumentum regni. Un mezzo efficace per
ottenere deleghe in bianco. Legittimazioni totali e a priori. Per costringere
le nude vite (le vite denudate dei sudditi) ad affidarsi alla forza catafratta
di un potere sempre meno responsabile. È la logica di guerra, in cui siamo
affondati nell'ultimo quinquennio e a cui non si sottrae, negli ultimi tempi,
neppure il nostro «governo amico»: un meccanismo per cui quella che dovrebbe
essere la risorsa salvifica per la nostra democrazia, la partecipazione, la
messa in gioco delle proprie «vite quotidiane», da parte dei cittadini, nello
spazio pubblico, appare invece come un disturbo. Un pericolo. Un limite al
potere decisionale delle oligarchie governanti. Comunque una sfida.
Anche per questo la giornata di oggi, a Vicenza, è una
verifica. Ci permetterà di misurare quanto quella «grande (e miserabile)
narrazione» che viene dall'alto è in grado di influire sulle scelte delle
persone. Quanto potere ha, quel racconto virtuale, di catturare e scrivere il
copione delle nostre vite. E quanto invece c'è, sotto traccia, nei territori,
di autonomia decisionale. Quanta capacità persiste, nelle persone, di
autodeterminarsi. Di scrivere da sé il proprio racconto. Di far valere il
proprio punto di vista sul destino del proprio habitat.
Noi, su questa forza e su questa autonomia ci scommettiamo.
Sappiamo che quanto maggiore sarà il numero dei manifestanti, tanto minore sarà
il potere oscuro della paura. E quanto minore sarà la paura, tanto maggiore
sarà il senso di sicurezza, e il carattere pacifico della manifestazione.
Sappiamo, per averlo verificato in molte occasioni, che una grande massa di
cittadini consapevoli è in grado di imporre le proprie regole a tutti coloro
che ne vogliano far parte. Di impedire gesti inconsulti, e fuori luogo, se non
ci mette lo zampino qualche potere occulto. Sappiamo che la concretezza degli
obiettivi di una moltitudine che si mette in cammino per difendere il proprio
contesto vitale, il proprio territorio, il proprio sistema di relazioni, è un
antidoto formidabile contro ogni tentazione narcisistica di piccolo gruppo,
contro ogni linguaggio e comportamento di setta o di parrocchia. Contro quella
logica micro-competitiva e spettacolarmente espressiva che caratterizza invece
l'universo malato della politica di potere.
Il presidente del Consiglio ha intimato ai «governanti»
(leggi ministri e viceministri giù giù fino all'ultimo sottosegretario) di
starsene alla larga. Non devono condividere nemmeno qualche centinaia di metri
di cammino con i propri «governati». È una bestialità senza limiti. Sanziona
una separatezza e una distanza tra sfera politica (con i suoi riti, i suoi
rapporti, i suoi linguaggi frusti, i suoi tic nervosi e i suoi tabù) e
territori (con le loro sofferenze, il loro disagio, le loro solitudini) che è
ormai sotto gli occhi di tutti. E che costituisce il vero male oscuro di cui la
nostra democrazia può morire: nella solitudine di luoghi e individui,
nell'autoreferenzialità virtuale dei soggetti istituzionali. Stiano rinserrati
nei loro bunker romani, a raccontarsi tra loro (e ai media che gli fanno da
specchio) un racconto che credono più vero del vero ma che non ha corpo reale.
Noi staremo dall'altra parte, a provare ad abbozzare un'altra storia. Un altro
linguaggio. Un'altra politica. E a continuare a scommettere.
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Governare vuol dire
ascoltare la gente
di Luigi Ciotti da Il Manifesto del 17/2/07 - pag.2
Ascoltare, ascoltare, ascoltare. Conoscere, conoscere,
conoscere. Dialogare, dialogare, dialogare.
Ascoltare
il territorio, i cittadini, le popolazioni. Conoscere i problemi e i bisogni,
sapendo che dietro di essi ci sono le persone. Dialogare, e se serve anche
litigare, ma avendo presenti le necessità di soluzioni e sapendo che di fronte
stanno delle persone. Degli avversari anche, ma mai dei nemici, qualsiasi cosa
accada e quale che sia la distanza tra le posizioni.
A Vicenza ascolto, conoscenza e dialogo sono stati finora
stentati e insufficienti. Certo non per sola responsabilità di chi si trova
oggi a decidere: c'erano impegni precedenti da rispettare, equilibri che non
possono essere cambiati da un giorno all'altro, le mediazioni spesso dolorose
della politica. Non vorremmo, però, che a causa di queste mediazioni la
politica perdesse i suoi contenuti. Quelli che la rendono alta, coerente,
rispettosa dei diritti umani e di quelli dell'ambiente, dei luoghi in cui
uomini e donne vivono; una politica attenta all'orizzontalità, capace di
sporcarsi le mani alla ricerca di soluzioni ma mai di sporcare i valori e i
principi che ne debbono stare alla base. A partire da quelli consacrati nella
Costituzione.
E magari a
partire da quell'articolo 11, troppo spesso vilipeso, occultato, reso carta
straccia.
Occorre oggi essere a Vicenza, con serenità e rispetto. E
con determinazione a dire che è indispensabile cambiare rotta, dunque cambiare
politiche. Occorre tornare al sogno di Sandro Pertini: riempire i granai,
svuotare gli arsenali. È un sogno possibile, alla portata di mano. Ma
continuamente sospinto più in là da robusti interessi economici, dalle lobby
che li sostengono e li impongono a chi ha il potere democratico di decidere e
governare.
Da poco anche l'Italia ha sottoscritto un accordo per la
realizzazione di un nuovo caccia da combattimento statunitense, lo Joint Strike
Fighter, i cui costi di produzione, solo per il nostro Paese, sono previsti in
700 milioni di euro. Quante politiche sociali, quanta lotta alla povertà,
quanta integrazione di immigrati, quanta assistenza agli anziani, quanti asili
nido in più si potrebbero garantire con quella somma? E quante con le risorse
utilizzate per le missioni militari all'estero?
A queste domande, e tante altre simili possibili, vorremo
che rispondessero le forze politiche, uscendo da quelle sterili polemiche, dai
fastidiosi e vuoti dibattiti, in cui talvolta paiono affaccendate.
Governare vuol dire ascoltare, conoscere, dialogare. Essere
attenti e disponibili non solo verso i potenti del mondo, ma anche verso i
piccoli della terra. Che urlano silenziosi a pochi metri da noi, nelle nostre
desolate periferie, o a qualche centimetro sulle mappe del globo, al di là del
Mediterraneo o nei Sud del mondo. Che bussano inascoltati alle nostre porte,
sino a spellarsi le dita. Che faticano, e troppo spesso muoiono, resi
invisibili da una globalizzazione che ha reso il profitto l'unica regola
universale. Ma a cosa serve il profitto, il denaro, il potere, se il pianeta
viene ucciso giorno dopo giorno? Bisogna abbandonare Mammona e scegliere l'uomo
perché la vita di ciascuno abbia un senso, perché non sia giocata contro quella
di un altro. Se si uccide per vivere, si è in realtà comunque morti. E questo
vale per le guerre vere e per quelle che qualcuno si illude ancora di poter
combattere nelle nostre strade.
Oggi siamo a Vicenza, sapendo che anche manifestare vuol
dire ascoltare, conoscere, dialogare.