Sentenza Dell’Utri, l’angoscia, la sofferenza, la vergogna
di Livio Pepino (*) da Narcomafie del 22/11/10
http://www.narcomafie.it/2010/11/22/sentenza-dellutri-langoscia-la-sofferenza-la-vergogna/
Sono state pubblicate
il 19 novembre le motivazioni della sentenza d’appello che lo scorso 29 giugno
aveva condannato Marcello Dell’Utri a 7 anni di reclusione per concorso esterno
in associazione mafiosa. Il collegio giudicante, composto dal presidente
Claudio Dall’Acqua, dal giudice a latere Sergio La Commare e dal relatore
Salvatore Barresi, ha riaffermato il ruolo di “mediatore” del senatore – già
evidenziato dal tribunale di Palermo nella sentenza di primo grado del 2004 –
tra Cosa nostra e l’imprenditore Silvio Berlusconi, nelle mire della mafia sin
dagli anni 70.
Abbiamo scritto
nell’editoriale dell’ultimo fascicolo di questa Rivista – riprendendo, in
realtà, analisi ben note – che lo scambio con il potere economico e la politica
è lo specifico delle organizzazioni mafiose. Sono passati pochi giorni e la
sentenza di un giudice della Repubblica ha fornito di questa realtà uno
spaccato di rara e agghiacciante evidenza. La sentenza, la cui motivazione è
stata depositata nei giorni scorsi, è quella emessa il 29 giugno scorso dalla
Corte di appello di Palermo nei confronti di Marcello Dell’Utri. Con essa il
potente parlamentare è stato riconosciuto responsabile di concorso in
associazione mafiosa e condannato – con riduzione della pena inflittagli l’11
dicembre 2004 dal tribunale del capoluogo siciliano – a sette anni di
reclusione. La sentenza non è certo viziata da pregiudizi accusatori. C’è,
anzi, chi ne ha criticato un certo formalismo e un insufficiente rigore nel
trarre dagli elementi emersi nel processo coerenti conclusioni (in particolare
nella parte in cui la condotta penalmente rilevante dell’imputato viene
ritenuta provata solo fino al 1992, escludendosi analoga prova per il periodo
successivo, e cioè quello «in cui, dalla fine del 1993 in poi, l’imprenditore
Berlusconi si determinò ad assumere il ruolo a tutti noto nella politica del
Paese»). Eppure la ricostruzione dei fatti – i profili giuridici, ancora
soggetti al definitivo giudizio della Cassazione, non sono qui rilevanti –
lascia a dir poco sbigottiti. Conviene riportarne alcuni passaggi.
«Anche dopo (…)
l’ascesa al vertice dell’associazione mafiosa di Salvatore Riina (…) Marcello
Dell’Utri mantenne costanti rapporti con Cosa nostra in particolare
adoperandosi (…) affinché il gruppo imprenditoriale facente capo a Silvio
Berlusconi pagasse cospicue somme di danaro alla mafia. (…) Ciò (egli) ha
potuto fare proprio perché ha mantenuto negli anni, mai rinnegandoli ed anzi
alimentandoli, i suoi amichevoli e continuativi rapporti con esponenti mafiosi,
in stretto contatto con i vertici di Cosa nostra, che hanno accresciuto nel
tempo il loro peso e spessore criminale in seno al sodalizio proprio grazie
alla possibilità, loro assicurata dall’imputato, di accreditarsi come tramiti
con quel facoltoso imprenditore divenuto nel tempo uno dei più importanti
esponenti del mondo economico-finanziario del Paese, prima di determinarsi
verso un impegno personale anche in politica. La condotta posta in essere dall’imputato,
protrattasi per circa un ventennio, evidenzia che Marcello Dell’Utri, mediando
con piena consapevolezza e con carattere di continuità e sistematicità tra gli
interessi criminali di Cosa nostra e l’imprenditore Berlusconi, disposto a
pagare pur di stare tranquillo, ha oggettivamente consentito all’associazione
mafiosa di conseguire il rilevante vantaggio di assoggettare alle illecite
imposizioni della criminalità mafiosa una delle maggiori realtà economiche ed
imprenditoriali del paese di quegli anni in forte crescente sviluppo. (…) È
stato proprio Marcello Dell’Utri che per circa due decenni, in ogni momento nel
quale l’amico imprenditore Silvio Berlusconi riceveva le ricorrenti pressioni e
le illecite richieste della criminalità organizzata, si è proposto in concreto
quale soggetto dotato delle capacità e soprattutto delle conoscenze idonee ad
affrontare e risolvere quei problemi restituendo al Berlusconi la tranquillità
che questi ricercava, procurata con il solo modo che il Dell’Utri conosceva:
favorire le ragioni di Cosa nostra inducendo l’amico a soddisfare le pressanti
pretese estorsive dell’associazione mafiosa. L’imputato ha rappresentato un
costante ed insostituibile punto di riferimento sia per Berlusconi, che lo ha
consultato e coinvolto ogni volta che ha dovuto confrontarsi con le minacce,
gli attentati e le richieste di denaro che lo hanno sistematicamente afflitto
nel corso degli anni, sia soprattutto per l’associazione mafiosa che,
sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole intrattenuto con lui da due
suoi esponenti, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, ha potuto disporre in ogni
momento, come i fatti hanno confermato, di un canale di collegamento sempre
aperto e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi senza il rischio di possibili
denunce ed interventi delle forze dell’ordine, quanto piuttosto con la garanzia
di un esito sicuramente positivo dell’azione criminale e dell’accoglimento
delle richieste estorsive. La cordialità della frequentazione tra Dell’Utri,
Mangano e Cinà esprime la reale natura dei rapporti tra loro esistenti,
delineando una vera e propria assoluta complicità. (…) La suddetta condotta
dell’imputato integra dunque il contestato reato associativo atteso che è
risultata decisiva nell’apportare all’organizzazione mafiosa un consapevole ed
essenziale contributo al suo rafforzamento avendo consentito a Cosa nostra di
intrattenere con Berlusconi un rapporto parassitario protrattosi a lungo nel
tempo».
Ritornano alla mente
le parole di Corrado Stajano nel commento alla sentenza ordinanza 8 novembre
1985 del cosiddetto maxiprocesso di Palermo: «Si legge la sentenza con angoscia
profonda, con sofferenza, con vergogna anche, se si pensa ai distinguo
intellettuali di quanti sono stati pronti in questi anni ad assolvere i
governanti ritenendoli vittime della mafia e non, piuttosto, protettori,
complici, responsabili oggettivi, e in alcuni casi soggettivi, di una
situazione intollerabile»
(*) Livio
Pepino è un
magistrato, membro del Consiglio Superiore della Magistratura; è stato
sostituto procuratore a Torino, Consigliere di Cassazione , presidente di
Magistratura Democratica.
E' anche condirettore di
“Narcomafie”, rivista del “Gruppo Abele” fondato da Don Ciotti.
Autore di alcuni libri
(anche con Giancarlo Caselli) sul tema del rapporto mafia-istituzioni