di Antonio Tamburrino da Il Mulino 1/2007 RIVISTA BIMESTRALE DI CULTURA E DI POLITICA - 03-06-2007
Mentre comincia ad affermarsi l’idea di
un modello di sviluppo radicalmente nuovo, che rifiuta alla base il nesso
tra sviluppo e uso di risorse e mette in discussione la stessa necessità di
infrastrutture materiali sempre più grandi, anche sul fronte delle grandi
opere il governo deve fare i conti con l’eredità lasciata dalla precedente
legislatura. Ma non sembra distaccarsene in maniera significativa.
Quali novità ha portato il Governo Prodi nella politica
delle infrastrutture? Il precedente esecutivo aveva esordito con idee chiare:
per far ripartire l’Italia, bisognava realizzare subito strade, autostrade,
tunnel, porti, ferrovie. La “Legge-Obiettivo” aveva introdotto poteri speciali:
abolita la programmazione, si passava direttamente alla Individuazione delle
opere da realizzare; e poi subito via ai cantieri, senza più perdite di tempo
con le amministrazioni locali, con le associazioni ambientaliste, con i
comitati di cittadini.
Obiettivi:
intanto un balzo immediato dell’1 ÷ 2% del PIL e poi, in prospettiva, un Paese
sempre più brulicante di TIR, di auto, di treni, di navi. L’opera simbolo era
il Ponte di Messina, un progetto di ambizioni planetarie. L’opposizione aveva
bocciato tutta la strategia berlusconiana, ritenendola verticistica nel metodo
decisionale, e ambientalmente non sostenibile nella sostanza.
Dal nuovo
Governo ci si aspettava un completo ribaltone, a partire dall’abrogazione della
“Legge-Obiettivo”. E invece, finora, non c’è stata la minima soluzione di
continuità. Anzi ci si sta adoperando per fare di meglio e di più. Per la
verità, all’esordio c’era stata una decisione di forte rottura: la
cancellazione del Ponte di Messina. Ma la sua interpretazione è sembrata subito
ambigua. Infatti né la maggioranza aveva espresso manifestazioni di giubilo, né
l’opposizione aveva organizzato barricate, nonostante si trattasse di una
decisione storica per entrambi gli schieramenti. La mancata reazione di
Berlusconi poteva avere una spiegazione. Aveva davvero creduto di poter
realizzare il mito del “ponte sospeso più lungo del pianeta”, per consegnare il
suo nome alla storia. Ma poi aveva dovuto prendere atto che nel mondo non c’era
né una banca né un’impresa disposta a rischiare un centesimo su quel progetto.
Per cui la caduta del mito per avversa mano politica doveva essere stata per
lui un sollievo.
Invece la
mancata esultanza dei partiti del “No Ponte” sembrava ingiustificata. Intanto,
già era sembrata eccessiva la fretta del Governo nel cancellare un progetto,
che pure aveva diversi fautori anche nella stessa maggioranza, senza nemmeno
aver esplorato la possibilità di una soluzione diversa. Negli ambienti
internazionali era opinione diffusa che, mentre il “Ponte Berlusconi” era tanto
ambizioso quanto tecnicamente ed economicamente improponibile, esistevano altre
soluzioni, tipo il ponte di Corinto, che avrebbero potuto risolvere in maniera
brillante, economica ed ambientalmente sostenibile la condivisibile esigenza di
realizzare un collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria.
Purtroppo, il tragico incidente dello speronamento del
traghetto dello scorso gennaio ha reso evidente che, almeno dal punto di vista
della sicurezza, il non fare nulla non è certo la migliore soluzione. Come pure
è rimasta del tutto inesplorata l’ipotesi che un collegamento stabile non sia
l’anello strutturale destinato alle grandi movimentazioni di merci su tratte
internazionali, ma sia l’elemento urbanistico innovatore per avviare un nuovo
tipo di conurbazione fra tutte le città dello Stretto; con straordinarie
prospettive per una nuova qualità della vita. E allora perché il Governo, tra
il fare e il non fare, non aveva voluto esplorare la via del fare meglio?
Il “Paese – Piattaforma”
Anche Prodi
sapeva bene cosa fare, pur se, sornionamente, aveva evitato di sbandierarlo
subito a “Porta a Porta”. Da Presidente della Commissione Europea, aveva preso
parte alla stesura dell’Agenda di Lisbona del 2000 per lo sviluppo e la
crescita dell’occupazione. Per realizzarne gli obiettivi, aveva poi, sempre da
Presidente, approvato la pubblicazione del “Libro Bianco” del 2001. In esso si
stabiliva la centralità della politica dei trasporti e se ne disegnavano gli
sviluppi strategici a livello continentale.
Per quanto
riguarda le dinamiche della domanda, per il 2010 si puntava ad un incremento
del 50% per le merci, e del 35% per i passeggeri, con un tasso di crescita
medio annuo rispettivamente del 4% e del 3% circa. Quei valori molto elevati
erano giustificati da un’idea di sviluppo basata essenzialmente nella crescita
della produzione.
Si è realizzata questa idea? A giugno 2006 l’Unione Europea
ha cercato una risposta con il rapporto di medio termine. Ebbene, mentre
l’aumento del PIL si è mantenuto entro le aspettative, la domanda di trasporto
è rimasta clamorosamente al di sotto delle previsioni. Infatti, per le merci
l’aumento non è andato oltre il 2,5%, mentre per i passeggeri non è neppure
arrivato all’1,5%, con valori generalmente più contenuti per i Paesi più
avanzati. Questi scostamenti sono estremamente importanti perché forniscono le
prime conferme, a livello di Unione Europea, di un modello di sviluppo
radicalmente nuovo. Esso, già da tempo emerso, studiato e politicamente
incoraggiato in alcuni Paesi del Nord, ha come base rivoluzionaria il
“de-linking”, cioè la disconnessione fra sviluppo e uso di risorse. Le
conseguenze possono essere tali da ribaltare convinzioni fino a ieri ritenute
granitiche, a cominciare dalla necessità di costruire infrastrutture materiali
sempre più grandi e sempre più capillari su tutto il territorio. Rientrato in
Italia, Prodi ha portato nel suo bagaglio il “Libro Bianco”, anche se poi forse
non ha fatto in tempo a leggerne la revisione del 2006.
Dando così per definitivamente acquisita la necessità
dell’Europa di dotarsi di grandi infrastrutture, si è ritenuto che l’Italia
potesse trarne il massimo beneficio, attrezzandosi per assumere il ruolo di
“piattaforma logistica euro-mediterranea”. E cioè: premesso che la Cina,
l’India e le altre potenze emergenti dell’estremo oriente esportano quantità
crescenti di merci verso il mercato europeo, e premesso che i flussi marittimi
ora confluiscono praticamente tutti nei porti del Mare del Nord, la nostra
missione storica deve essere quella di invertire la situazione: dobbiamo
ampliare e attrezzare i nostri porti, soprattutto quelli del Sud, per le grandi
navi containers; e costruire strade e ferrovie, per distribuire le merci nel
Nord Italia e nel Centro Europa. Il sogno del nostro Paese sarà quello di
diventare il crocevia dei traffici fra l’Oriente e l’Occidente.
Per
realizzarlo, l’Italia ha già firmato un accordo strategico con l’Egitto e la
Cina: si amplierà il canale di Suez, e poi i 2/5 del traffico cinese per
l’Europa, che oggi circumnaviga l’Africa perché le navi sono troppo grandi,
finiranno direttamente nel porto di Gioia Tauro, da cui si dirameranno grandi
direttrici di traffico nazionale ed internazionale. Lì ci sarà bisogno di
attrezzare un retroterra immenso. La finanziaria 2007 vi ha destinato un apposito
capitolo di spesa.
Definita così la grande strategia, non è rimasto che passare
all’individuazione delle singole opere.
L’Italia dei Lavori
Il ministro
delle infrastrutture Antonio Di Pietro è stato molto attivo. Nel Documento di
Programmazione Economica e Finanziaria 2007 ha infatti previsto un “Allegato
infrastrutturale”, che non contiene altro se non l’elenco delle opere già
approvate dal precedente Governo. Per Di Pietro le opere non vanno viste né da
destra né da sinistra: se sono utili vanno fatte e basta. Dalla sua analisi
risulta che tutte le opere approvate da Berlusconi siano utili; ma non
sufficienti. E così il ministro, dopo appena sei mesi di governo, vara un nuovo
e più grande piano delle grandi opere (www.infrastrutturetrasporti.it). L’importo
è di 200 miliardi di euro, di cui 60 da trovare subito. Intanto la finanziaria
2007 ne stanzia 25.3, con un aumento di ben il 40% rispetto all’anno
precedente. Si tratta di un piano davvero imponente che, a consuntivo,
inghiottirà non meno di 300÷400 miliardi, a fronte dei 125 miliardi previsti da
Berlusconi. Fatto il piano, il ministro si è preoccupato della sua
realizzazione. Per prima cosa, essendo le strade prioritarie, con un rapido
colpo di mano, ha rafforzato l’ANAS, con un ricambio generazionale. Al vertice
ora c’è il Pietro Ciucci, già il braccio destro di Berlusconi nella vittoriosa
battaglia del Ponte, mentre alcuni membri del consiglio di amministrazione
risultano già iscritti all’“Italia dei Valori”.
Si va così
costruendo, con ambizioni alte e con decisioni concrete, l’“Italia dei Lavori”:
che cosa c’è di diverso rispetto alla berlusconiana “Italia del fare”? Molti
più cantieri. E allora, perchè il “No” al Ponte? Nessun “No”, precisa il
ministro Di Pietro, qualcuno ha capito “cancellazione”, ma si trattava in
realtà di una “sospensione”. Appena verranno recuperati i soldi il Ponte verrà
costruito, così come è stato progettato. E Prodi è d’accordo, avendolo già
approvato quando era Presidente della Commissione Europea” (va ricordato che il
Ponte, in quel periodo, venne infatti inserito come opera strategica nel
Corridoio Europeo n. 1, da Palermo a Berlino). Viene dunque da chiedersi se non
sia stato frutto di un malinteso l’opposizione frontale alla strategia
berlusconiana. Ma su un punto le posizioni dei due schieramenti politici
restano ideologicamente inconciliabili: il modo di acquisire il consenso dei
cittadini.
Un consenso ragionevole
Di Pietro
afferma: mai più la polizia in Val di Susa, bisogna dialogare con le
istituzioni periferiche e le popolazioni locali, con gli ambientalisti finchè
la ragione non prevalga. Ma quali sono i percorsi della ragione? In Val di Susa
effettivamente il Governo avvia subito un tavolo di confronto. Senonchè poi il
ministro, parallelamente, al ministero porta avanti l’iter di approvazione del
vecchio progetto. E le richieste dei valligiani? E le proposte alternative?
Inevitabilmente, si crea un po’ di confusione. Ma poi il ministro prende in
mano la situazione e detta chiaramente la linea da seguire. In occasione del
vertice bilaterale del 24 novembre 2006 a Lucca, dove fra Italia e Francia si
ufficializza la domanda alla UE di co-finanziamento della Torino-Lione, a chi
gli fa notare che le questioni locali sono ancora tutte aperte, il ministro
chiarisce che “la TAV si farà anche se gli amministratori locali alla fine non
saranno d’accordo. La ragione, che alla fine tutti devono capire, è che
altrimenti per noi non c’è futuro in Europa”.
Si capisce
così definitivamente che la nuova apertura del Governo verso la partecipazione
dei cittadini consiste nel far emergere un “consenso ragionevole”. Anche nella
questione del Mose, c’è stata questa apertura. Il sindaco Cacciari e molti
altri cittadini sostengono da tempo che, per salvare Venezia, al posto del
Mose, ci sono altre alternative che sono molto più intelligenti, economiche,
efficaci e compatibili con l’ambiente. Ebbene Di Pietro effettivamente porta
queste alternative al Ministero, e le fa esaminare dai suoi tecnici. I quali,
essendo gli stessi che finora hanno sempre sostenuto il Mose, preferiscono non
contraddirsi e, anzi, aggiungono che, poichè i lavori sono già iniziati, anche
se vi fossero valide alternative, non varrebbe la pena di ripensarci, per non
perdere tempo. Si fissa così un buon precedente per evitare che, anche per
altri casi controversi, le cose vadano troppo per le lunghe.
Ma
talvolta, per la fretta, il nuovo metodo consensuale non viene applicato
integralmente. Si veda la questione del “Corridoio Tirrenico”. Il precedente
governatore del Lazio, Storace, pur di realizzare un’autostrada, dopo diversi
tentativi andati a vuoto, non aveva trovato altra soluzione se non quello di
localizzarla in un tracciato perfettamente adiacente alla Pontina. Senonchè,
siccome questa strada non si può cancellare, ma va comunque riammodernata con
standard da superstrada, si era arrivati al paradosso di ipotizzare da Roma a
Latina un Corridoio stradale a 8 corsie, con capacità di traffico anche
maggiori di quelle dell’autostrada Roma-Napoli. Accogliendo le vaste e vivaci
proteste di ambientalisti, agricoltori e comitati di cittadini contro l’inutile
autostrada, l’attuale governatore Marrazzo, in campagna elettorale, si era
impegnato, una volta eletto, a cancellare subito l’oscena proposta. Ma poi,
come dice Di Pietro, è emerso che le grandi opere anche se vengono da destra
possono benissimo proseguire a sinistra. E così prima che i contestatori si
rendano conto dell’’inversione di rotta ed chiedano un confronto, Marrazzo e Di
Pietro, ringraziando Storace, decidono di proseguire per la retta via.
Ma qual è
il cemento che garantisce questa granitica continuità alla nostra politica
infrastrutturale?
L’ingegneria giurassica
Anche il
Governo attuale sostiene che è urgente fare più infrastrutture, per competere
in Europa. Purtroppo non ci si accorge che non è più solo la quantità, ma ora è
sempre più la qualità a fare la differenza. Sono i costi, i tempi, la
funzionalità delle nostre opere che stanno creando un “caso Italia”. Nelle
costruzioni ferroviarie, i nostri costi sono costantemente oltre il doppio di
quelli di Francia, Spagna, Germania. La prima spiegazione, ma non l’unica, è la
commistione fra affari e politica. Fu provato nella stagione di Mani pulite. La
“Legge Merloni” aveva cercato di voltare pagina, individuando con più chiarezza
i ruoli e le responsabilità di politici, amministratori, dirigenti pubblici,
imprese. Ma è durata poco. Il primo dietro-front si è avuto proprio con la
“Legge-Obiettivo” che, per le grandi opere, anziché contrastare, ha
istituzionalizzato il rapporto diretto fra i vertici politici e le grandi
imprese. Poi il Codice degli Appalti, nella sua scia, ha completato la
controriforma per tutte le opere pubbliche, anche le più modeste e periferiche.
Così un’impresa oggi può vincere un appalto sulla base di un progetto
preliminare, alle volte molto approssimativo e con ribassi spesso scandalosi.
Ma tutto ciò non pregiudica nulla, perché poi è la stessa impresa a sviluppare
il progetto esecutivo, cioè a decidere ciò che realmente si deve costruire ed a
stabilire come e quando lo si deve fare. Ovviamente, con delle contropartite
politiche.
Non si
spiega altrimenti come un numero impressionante di gare viene assegnato con un
ribasso superiore al 30%. In questi casi dovrebbe essere obbligatorio individuare
responsabilità precise: o l’ingegnere progettista risulterà incompetente o
l’impresa realizzerà un’opera di qualità scadente. Purtroppo c’è una terza
ipotesi, quella sopra esposta, che è quella che più spesso si avvicina alla
realtà. Tanto per farsi un’idea, il costo della TAV è lievitato, per ora, del
500%, passando da 12 a 60 miliardi di euro. E, in oltre 15 anni, da quando la
TAV è partita, non c’è stato alcun ministro delle Infrastrutture, compreso
l’attuale, che abbia la curiosità di sapere almeno se qualche progettista non
era stato all’altezza del compito.
La lievitazione dei costi trascina con sé
inevitabilmente l’allungamento dei tempi. La Corte dei Conti ha documentato che
la “Legge-Obiettivo” ha peggiorato ulteriormente la situazione. Di fatto, la
fine dei lavori è spesso imprevedibile. In queste condizioni, la gestione degli
appalti pubblici richiede principalmente capacità di relazioni politiche. Le
grandi imprese straniere, che puntano sull’efficienza organizzativa e
sull’innovazione tecnologica, se ne tengono alla larga, lasciandoci sempre più
attardati nel nostro provincialismo.
Di
conseguenza le nostre grandi opere sembrano appartenere all’epoca giurassica:
sono enormi nelle dimensioni, per metterci più cemento, più ferro, più
movimento di terra, ma sono molto modeste nel contenuto tecnologico, che non
preoccupa nessuno. Insomma costruiamo archeologia infrastrutturale, dalla TAV
al Mose, dal Ponte di Messina alla Metro C di Roma.
Una volta
che al Ministero delle Infrastrutture è arrivato Di Pietro, cioè l’uomo di
“Mani pulite”, ci si aspettava almeno la rivoluzione. Non è successo
assolutamente nulla. E’ il segno che non è solo questione di uomini né di
schieramenti politici. E’ quindi indispensabile un confronto con l’Europa, ma
su basi del tutto diverse.
Le istituzioni partecipative
In Italia
con la sindrome “Nimby” (Not in My Backyard, non nel mio giardino) si
attribuisce all’integralismo ecologista ed all’egoismo localistico la sola e
grave responsabilità del torpore improduttivo in cui versa il Paese. Per
debellare questa sindrome si è fatto ricorso alla legislazione emergenziale. Ma
dopo anni di cura la situazione, anziché migliorare, è peggiorata. E’ la cura
giusta?
In alcuni
Paesi del Nord Europa, si è seguito un approccio diverso. Con risultati molto
positivi. Fra la Danimarca e la Svezia è stato realizzato un ponte 5 volte più
lungo di quello di Messina, in 5 anni di tempo e con piena condivisione delle
popolazioni locali e degli ambientalisti. La Germania ha realizzato un numero tale
di inceneritori da assorbire anche le emergenze della Campania, con buoni
profitti e senza proteste di piazza. La Francia sta realizzando il raddoppio
del porto di Le Havre, che è il 5° d’Europa. Esso è ubicato alla foce della
Senna, in un contesto ambientalmente molto delicato. Il progetto che comprende
anche la ri-localizzazione di un intero ecosistema di area umida, è stato
varato in tempi brevi e con unanime condivisione.
Il diverso
punto di partenza è stato che la “sindrome Nimby” non è stata considerata un
male in sé, ma è stata percepita come segnale che qualcosa di nuovo, e di molto
importante, stava accadendo: la volontà e la capacità dei cittadini di
partecipare ai processi decisionali. Di conseguenza le istituzioni non si sono
arroccate, come da noi, ma sono andate incontro alla società, lungo due
direttrici: a monte, aprendo la pianificazione alla società civile; a valle,
strutturando un confronto costruttivo con i cittadini. Nella pianificazione è
stata data piena ospitalità alla scienza, alla tecnica, all’economia, alla
finanza. Sono stati costruiti obiettivi più ambiziosi e allo stesso tempo più
realistici.
La Svezia ha deciso di liberarsi completamente dalla
schiavitù del petrolio nel 2020. Col sostanziale contributo delle fabbriche
automobilistiche, che stanno producendo ormai solo auto ibride. Da noi la
pianificazione rimane un puro adempimento burocratico. La conseguenza è che per
pianificare la nostra alta velocità ferroviaria non abbiamo saputo fare altro
che importare la brutta copia di quella francese. Oltralpe vi si era impegnata
una generazione di tecnici e di ricercatori. Per il problema dei rifiuti
abbiamo fatto ancora meno. Non siamo neppure andati in Germania a studiare
l’innovazione del “Dual Systeme”, cioè la separazione dei rifiuti alimentari da
quelli industriali, con la conseguente gestione di quest’ultimi a totale carico
dei produttori. Questa è stata la chiave di volta che, coinvolgendo il mondo
delle imprese, ha rivoluzionato tutto il settore.
L’apertura
delle istituzioni a valle è stata, se possibile, ancora più feconda. La vera
chiave di volta consiste nella presentazione al pubblico del progetto, in
maniera “non tecnica”. Inoltre ogni progetto è sistematicamente confrontato con
diverse soluzioni alternative. In tempi più recenti, è stata introdotta anche
l’ “opzione zero”, cioè l’alternativa di non fare nulla.
In questo
modo qualsiasi cittadino, qualunque sia la sua professione ed il suo livello
culturale, può realmente partecipare alle scelte delle amministrazioni, fino alla
decisione radicale di azzerare il progetto proposto.
Per avere un’idea di quanto invece noi siamo lontani da
questa mentalità, basti pensare che se qualche cittadino della Val di Susa
osasse chiedere di rimettere in discussione l’utilità del Corridoio
Lisbona-Kiev (che pure è solo una modesta favola politica) non verrebbe
ricevuto neppure dall’usciere del Ministero.
Questa
evoluzione delle istituzioni, da impositive a partecipative, dopo essersi
consolidata in alcuni Paesi nordici, poi ha cominciato a permeare anche la
legislazione dell’Unione Europea. Noi siamo andati esattamente nella direzione
contraria, subendo una serie crescente di procedure di infrazioni.
La
trasformazione delle istituzioni è solo la punta dell’iceberg di un’evoluzione
che sta trasformando la società e il modello di sviluppo dei Paesi più
avanzati.
Quali sono
le più recenti innovazioni nel nostro Paese?
Crescere, crescere, crescere
Finora il
Governo non ha potuto ancora avviare la realizzazione del suo programma
politico, perché è stato totalmente impegnato a riportare i conti pubblici
entro i parametri europei. Ma ora, finalmente, il Presidente del Consiglio, ha
tracciato la rotta di legislatura ed ha fissato tre priorità: crescere,
crescere, crescere. Ma per crescere bisogna prima costruire nuove e più grandi
infrastrutture materiali, che ora quindi diventano le priorità nazionali.
L’obiettivo finale è quello di aiutare chi è rimasto indietro. Su questa sorta
di dovere etico non può esserci alcun dubbio, tanto più che l’Italia ha preso
degli specifici impegni a livello comunitario. Infatti l’Agenda di Lisbona del
2000 ha legato tutti i Paesi membri all’obiettivo epocale di sradicare la
povertà e di cancellare l’emarginazione sociale. E in effetti molto si sta
facendo in questa direzione.
Il 16 ottobre 2006 a Tampere, in Finlandia,
si è tenuta la “5^ Conferenza sulla povertà e sulla esclusione sociale”, per
fare il punto della situazione, esaminando come i singoli Paesi si stanno
organizzando, quanto è già stato fatto e quanto resta ancora da fare. Per la
prima volta, per misurare la povertà, non si è tenuto conto del solo parametro
monetario consistente nella soglia del 60% del reddito medio, ma si sono presi
in considerazione anche tutti quei beni e servizi e quei rapporti sociali che
permettono di considerare un essere vivente come una persona. Ebbene, con
questi criteri, il 16% della popolazione UE-25 non raggiunge la soglia minima,
con un’oscillazione che tende ad abbassarsi anche sotto l’8% per i Paesi del
Nord e che supera anche il 20% per i Paesi del Mediterraneo. Il dato più
confortante è che la percentuale tende a diminuire al crescere della ricchezza
complessiva.
Ma ciò che
davvero infonde grande fiducia è che alcuni Paesi hanno preso con tale
determinazione l’impegno di Lisbona che già cominciano a fissare le date di
conseguimento degli obiettivi finali. Alcuni traguardi potranno essere
raggiunti a partire dal 2015.
Per fare
solo un esempio, la Francia, proprio di recente, ai due diritti costituzionali
esistenti, quello della sanità e quello dell’istruzione, ha aggiunto un terzo
diritto, quello dell’abitazione. Quest’ultimo diritto sarà goduto dalla
totalità dei cittadini francesi entro il 2012, mentre le situazioni più urgenti
saranno risolte già dal prossimo anno. Lo studio U.E. non fornisce l’attuale
posizione dell’Italia, e, tantomeno, dà conto dei suoi programmi per
raggiungere gli obiettivi finali, perché il nostro Paese non ha fornito alcun
dato e non ha esposto alcun piano.
Dunque il
triplice obiettivo di Prodi è pianamente condivisibile ma la tempo stesso poco
credibile, perché non è sostenuto da alcuna programmazione realistica. Il fatto
è che la crescita, proprio perché serve ad adempiere ad un impegno etico
imprescindibile e non rinviabile, più si protrae nel tempo più diventa
inefficace. Pertanto bisogna annunziare non l’inizio, ma la fine della
crescita. E, per il nostro Paese, considerando il livello di ricchezza
nazionale e le ulteriori potenzialità di sviluppo, l’esaurimento della crescita
potrà essere collocato entro un paio di decenni, al massimo. Se così sarà, non
avrà più senso mettere in cantiere grandi infrastrutture che entreranno in
esercizio fra 15÷20 anni, perché, per quell’epoca, le esigenze della società
saranno di natura del tutto diversa. Per dare un’occhiata a come sarà il mondo
dopo la crescita, è interessante andare a vedere che cosa si pensa
dell’evoluzione dei trasporti nel Regno Unito.
Il “Rapporto Eddington”
Da tempo il
Governo del Regno Unito ha messo al lavoro un gruppo di qualificati esperti
interdisciplinari, guidato da Sir. Rod Eddington. A dicembre 2006 è stato
presentato il rapporto finale: “The Eddington Transport Study-The case for
action: advice to Governement”. E’ interessante leggerlo, perché così come i
Romani avevano inventato la mobilità, gli Inglesi hanno provveduto alla sua
meccanizzazione. Inoltre l’eccentricità del Regno Unito rispetto all’Europa
continentale non è dissimile per molti versi a quello dell’Italia. Pertanto il
“Rapporto Eddington” anticipa molte prospettive con le quali l’Italia prima o
poi dovrà pur misurarsi.
Per andare
alla base dei problemi, conviene guardare ai dati relativi ai nessi fra
sviluppo economico e crescita dei trasporti nel Regno Unito dal 1980 al 2005.
La crescita economica, contrariamente all’Italia, è stata di tutto rispetto,
perché in 25 anni è lievitata di oltre l’80%, con un valore medio annuo intorno
al 3%. Nello stesso periodo i trasporti si sono comportati ben diversamente:
per i passeggeri, l’aumento si è fermato al 60%; per le merci, non è arrivato
neppure al 40%, cioè ad un valore che è appena la metà del PIL. Il dato che ha
invece seguitato a crescere costantemente è quello dei veicoli-chilometro.
Sembra un dato incorente. In realtà è di grande valore perché sta ad indicare
che i trasporti di massa stanno sempre più lasciando il posto ai trasporti
individuali.
Tuttavia
l’indicazione decisiva è un’altra ed è quella che mostra che il rapporto fra la
crescita economica e quella dei trasporti, lungi dall’essere una costante, è
una variabile molto legata al tempo. Infatti per i primi anni Ottanta, la
crescita economica trascina rigidamente con se i trasporti, con un rapporto di
circa 1 a 1. Ma già alla fine di questo decennio, tale rapporto comincia ad
indebolirsi. Poi, a cavallo degli anni Novanta, la divaricazione si fa sempre
più evidente. La svolta decisiva si ha a cavallo del 2000: la crescita
economica prosegue autonomamente a ritmo sostenuto, ma l’incremento dei
trasporti si arresta definitivamente. E’ l’emergere del vero e proprio
“de-linking”, vale a dire di una fase in cui l’economia prosegue nella sua
crescita, slegandosi dagli aspetti materiali che prima la caratterizzavano.
Confesso di aver letto con piacere questi dati perché essi
confermano, con valori aggiornatissimi, l’analisi da me proposta in un
precedente intervento su questa stessa rivista (Il Mulino 1/2006), sulla base
di dati al 2002, aggregati a livello europeo. Eravamo allora davvero allo stato
nascente del de-linking. Quindi ci poteva essere il rischio di esaminare il
fenomeno con la lente dell’ottimismo. Ma, tenendo presente che anche il già
citato rapporto di medio termine della UE sui trasporti su cui si era basata
quell’analisi, ritengo che ora si possa decisamente confermare che la fase di
de-linking ha ormai messo radici in Europa.
Tornando al
Regno Unito, il “rapporto Eddington” traccia le linee-guida per il futuro. In
sintesi: un cambiamento più verso la qualità che verso la quantità, più verso
le infrastrutture immateriali che quelle materiali. E cioè, nessuna urgenza e
nessuna priorità per i grand projects; viceversa, un forte impulso
all’efficienza, attraverso strumentazioni tecniche ed economiche, alcune delle
quali sono già oggi ampiamente collaudate. Per esempio lo “scheduling” per il
trasporto merci, per utilizzare in maniera sempre più massiccia l’informatica,
e il “pricing” per i passeggeri, per evitare la congestione attraverso pedaggi
sempre più estesi e sempre più differenziati per fasce orarie. Insomma, se
volessimo utilizzare uno slogan, potremmo dire che si sta passando dai TIR ai
BIT. Infine il “Transport Study” prende adeguatamente a carico gli obiettivi
ambientali, così come definiti dal “Rapporto Stern” dell’ottobre 2006. Qual è
il nuovo modello di sviluppo che si comincia a intravedere?
Oltre la crescita materiale
Nel 1972 il
“Club of Rome” pubblicò il rapporto su “I limiti dello sviluppo”. Le
conclusioni sul futuro dell’uomo e del Pianeta erano pessimistiche, per una
serie convergente di ragioni. Innanzitutto si partiva dall’idea che lo sviluppo
si identificasse sostanzialmente nella crescita materiale. Basti ricordare che
nella versione originale, in inglese, il titolo del rapporto era “The limits of
growth”. Del resto allora la povertà era ancora la condizione prevalente
dell’umanità. Inoltre in quel periodo storico il tasso di incremento
demografico aveva superato il 2% annuo e tendeva ad aumentare ancora; si doveva
così prevedere un raddoppio della popolazione mondiale ogni 30 anni. Combinando
questi fattori, ne derivava un’impellente necessità di crescita, della quale,
peraltro, non si riusciva a scorgere nessuna fine. Ma questa crescita
comportava sia il consumo di risorse sia la produzione di inquinamenti. E, dato
che risorse ed inquinamenti avevano a che fare con le dimensioni finite del
pianeta Terra, ne discendeva l’impossibilità di quadrare il cerchio.
Conclusione: la crescita senza limiti era obbligata ma irrealizzabile.
Nasce così
la “cultura dei limiti”: ogni cosa, prima o poi, è destinata a finire. Al
massimo, quello che si può fare è gestire con saggezza il patrimonio
disponibile, per farlo durare il più a lungo possibile. Questa cultura porta ad
una visione fatalistica e dirigistica e, sul piano personale, concede forti
attenuanti all’inazione e alla deresponsabilizzazione. Del resto, a sostegno di
questa cultura c’era anche la validazione scientifica del MIT che, per conto
del “Club of Rome”, aveva approntato i primi modelli matematici a scala
planetaria. Per esempio, per il rame, metallo fondamentale per tutte le apparecchiature
elettriche, era stato previsto il suo esaurimento in un arco compreso fra 36 e
48 anni, e cioè al minimo il 2008 e al massimo il 2020. Che cosa è in realtà
successo? Nonostante la domanda sia stata molto più alta del previsto, oggi, a
meno di un anno dalla prima scadenza, non solo non si è esaurito nulla, ma non
c’è ancora alcuna ombra di tensione sui prezzi. Semplicemente è accaduto che
oggi riciclare il metallo costa meno che estrarlo. Quindi possiamo ancora
prevedere che le miniere verranno chiuse, magari proprio entro il 2020, ma non
per esaurimento delle stesse, bensì perché non ci sarà più domanda di minerale
vergine. E questo succederà non solo grazie al riciclo, ma anche e soprattutto
grazie ad un uso sempre più efficiente della materia. La recente direttiva
comunitaria “Raee” sul riciclo e sul riuso dei prodotti elettrici ed
elettronici darà una poderosa spinta in questa direzione. E quella del rame non
è affatto una storia isolata.
In
Germania, da quest’anno, le auto prodotte, alla fine del loro ciclo di vita,
devono essere ritirate dalle fabbriche al 90% e, di questa percentuale, deve
essere riciclato l’80%. Nel 2015, i valori saliranno rispettivamente al 95% ed
all’85%. In una data da fissare successivamente si arriverà al 100% di tutto. Oggi,
per costruire un’automobile, servono almeno 20 tonnellate di materie prime. Di
esse, nell’arco di qualche decennio, non ci sarà più bisogno. Questo trend,
oltre la materia, riguarda anche l’energia. Un solo dato può essere indicativo.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia, (Iea), ha comunicato che i 30 Paesi più
industrializzati, che assorbono il 60% del petrolio, nel 2006 hanno ridotto
dello 0,6% la domanda rispetto al 2005. E’ vero che i prezzi erano alti e
l’inverno è stato mite, ma le ragioni decisive consistono sia in un uso sempre
più consistente delle fonti rinnovabili, sia in un consumo sempre più
parsimonioso dell’energia. Se ne ricava una linea di tendenza generale: la
produzione dei Paesi più avanzati è sempre più fatta di conoscenza ed ha sempre
meno bisogno di materia e di energia.
Oggi,
dunque, cominciamo a distinguere fra sviluppo e crescita materiale. Per quanto
riguarda la crescita, che è quella che serve a soddisfare i fabbisogni primari
della popolazione, oggi cominciamo a pensare che essa finirà, non a causa dei
limiti, ma perché di essa non avremo più bisogno. Grazie alla tendenza
all’esaurimento della transizione demografica, ma grazie anche e soprattutto ai
progressi della scienza e della tecnica. Finita la crescita, ci sarà sempre più
spazio per lo sviluppo, cioè quello sviluppo che tenderà a non avere più nulla
di necessitato e che avrà sempre meno bisogno di materia e di energia. Sarà una
sorta di sviluppo creativo, alimentato dalla conoscenza e dalla fantasia e
intessuto con le libere scelte degli uomini.
Il mondo politico italiano, ma anche quello culturale, sono rimasti fermi ai “limiti dello sviluppo”. Molti buoni propositi ma poche azioni concrete. Sarebbe molto stimolante cominciare a dibattere nel nostro Paese non solo di crescita ma anche di un nuovo modello di sviluppo, possibilmente coinvolgendo anche quei tanti italiani che sempre più spesso dimostrano che la creatività è già diventata il motore fondamentale della loro vita quotidiana.