Grandi opere col trucco
Il ponte
sullo Stretto. E poi autostrade, ferrovie, metropolitane...
Le
infrastrutture promesse da Berlusconi restano una chimera: i soldi sono pochi.
Ma se alla
fine si faranno, sarà con un metodo che occulta i debiti dello Stato. E lascia
poi un buco all’Europa
di Gianni Barbacetto dal
sito web di “società civile” (http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/grandi_opere.html#su)
Novembre 2002
La sera del 18 dicembre 2000 un
Silvio Berlusconi in gran forma, ospite del salotto televisivo di Bruno Vespa,
traccia su alcune cartine d’Italia le mappe delle grandi opere da realizzare.
Strade, autostrade, ferrovie, ponti, metropolitane... Porta a porta, quella
sera, diventa la più grande televendita della storia. «Guardi qua, il ponte
sullo Stretto. Una grande opera, no? Ecco: si può fare. Servono 9 mila
miliardi: i privati possono mettercene 4.500, l’Europa ne ha già stanziati
altri mille, bastano solo altri 3.500 miliardi». Come rinunciare all’idea? Il
passante di Mestre: «Costerebbe solo 1.500 miliardi». E poi via, un lungo
elenco di mirabolanti offerte speciali, assolutamente imperdibili. Il paese di
Bengodi raccontato con incrollabile entusiasmo.
Risultato:
ottimo successo di audience (oltre 2 milioni e mezzo di telespettatori). E gran
seguito di polemiche: per il trattamento di favore riservato da Vespa
all’allora leader dell’opposizione, per lo spottone elettorale regalato al
leader del centrodestra. In più, il radicale Daniele Capezzone invoca
l’intervento di Striscia la notizia: «Questa puntata di Porta a porta
costituisce una pagina televisiva che merita di essere a lungo conservata e
studiata. In particolare la scenetta di un Berlusconi che sembra snocciolare a
memoria nomi e numeri, ma in realtà ripassa i testi già scritti a matita sui
cartelloni». Il ministro dei Lavori pubblici del governo ulivista in carica,
Nerio Nesi, grida invece al plagio: «Per caso ho visto il capo dell’opposizione
che disegnava il mio piano, e da un certo punto di vista sono stato anche molto
contento. C’è una sola differenza: lui dà per scontato il ponte sullo Stretto,
mentre io no».
Da
quella puntata di Porta a porta sono passati quasi due anni e i nodi sono
venuti finalmente al pettine. Le mirabolanti promesse della televendita
elettorale non sono state mantenute. Anzi: «È meglio fermarci un minuto», ha
dichiarato Berlusconi il 27 settembre, mentre era in corso il braccio di ferro
sotterraneo per varare la nuova legge finanziaria e già la parola fatidica
(«sacrifici») era stata pronunciata. «È meglio fare magari anche un passo
indietro nelle infrastrutture del traffico, strade e ferrovie, per poter poi
fare un salto nel futuro e avere un Paese moderno. Ho infatti trovato nel
cassetto dei progetti su strade, autostrade, ferrovie e alta velocità
assolutamente tutti superati rispetto alle attuali esigenze e alle nuove
tecnologie». La volpe dice che l’uva promessa è poco matura.
Che
cosa succederà ora? Si faranno le grandi opere, prima fra tutte quel ponte
sullo Stretto di Messina che delle promesse di Berlusconi è diventato il
simbolo?
ATTO PRIMO.
QUANTE?
La commedia delle grandi opere si sviluppa in tre atti. Atto primo: ma quali sono le «grandi» opere? quante sono? e in che cosa si differenziano dalle opere «normali»? Atto secondo: ma ci sono i soldi per farle? Atto terzo, e gran finale: se si facessero, con il sistema finanziario e d’appalti che è stato appositamente messo a punto, che cosa succederebbe del bilancio dello Stato?
Già
sul numero delle «grandi opere» comincia il balletto delle cifre. Berlusconi,
nella televendita da Vespa, ne indicava una manciata. Dopo la vittoria
elettorale, nelle prime intenzioni del suo governo erano una decina, al massimo
una dozzina di interventi strategici. Nella delibera Cipe del dicembre 2001
diventavano 220: un lunghissimo elenco di opere e operette messo insieme dopo
il confronto tra il ministro incaricato della partita, il titolare delle
Infrastrutture Pietro Lunardi, e i rappresentati delle Regioni che spingevano
per allargare a dismisura la lista. Il Dpef (il documento di programmazione
economica e finanziaria del governo) cercava poi di reintrodurre qualche
criterio di priorità, indicando 21 opere «di serie A», che diventavano al
massimo 36 considerando qualche intervento complesso. Le 21 (o 36) meraviglie
d’Italia comprendevano l’Alta velocità ferroviaria, una serie di strade e
autostrade (tra cui la Salerno-Reggio Calabria, l’asse viario Marche-Umbria, i
nodi integrati di Roma, Genova, Napoli, Bari, Catania), il passante di Mestre,
i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero, il sistema Mose
contro l’acqua alta a Venezia, interventi idrici al Sud e, naturalmente, il
ponte sullo Stretto.
Poche,
in verità, le novità: l’elenco sembra ripreso più o meno dal Libro bianco sulle
opere pubbliche di Lamberto Dini, stilato nel 1995. E anzi, l’ideazione del
sistema finanziario dell’Alta velocità, piatto forte del banchetto delle grandi
opere, è perfino precedente, risale ai bei tempi di ’O Ministro, ovvero il
democristiano napoletano Paolo Cirino Pomicino. Già i governi dell’Ulivo si
erano comunque impegnati (ma senza propaganda televisiva) a realizzare più o
meno le stesse opere, con la vistosa eccezione del ponte sullo Stretto, e il
«comunista» Nerio Nesi, ultimo ministro dei Lavori pubblici prima dell’era
Berlusconi, si era già dato da fare per rassicurare costruttori e impresari che
ci sarebbe stato lavoro per tutti.
Ma
perché «grandi opere»? Lo spiega, riservatamente, un costruttore piemontese:
«Perché disciplinate da leggi speciali. Per aggirare le leggi ordinarie». Ma
quanto siano «speciali» le opere e le leggi che le regolano lo capiremo
soltanto arrivati al terzo atto della commedia.
ATTO
SECONDO. E I SOLDI?
Non ci sono, i soldi per fare le opere, grandi o piccole che siano. Il Dpef prevede investimenti per grandi infrastrutture strategiche per oltre 125 miliardi di euro (poco meno di 244 mila miliardi di vecchie lire), con una spesa nel triennio 2002-2004 di 24 miliardi di euro (47 mila miliardi di lire). Il ministero delle Infrastrutture aveva assicurato che sul tavolo, per il prossimo triennio, c’erano 12 miliardi di euro, già destinati da leggi precedenti a specifiche grandi opere, mentre altri 8 miliardi sarebbero arrivati dal collegato alla legge finanziaria. Totale, circa 20 miliardi di euro: meno dei 24 necessari secondo il Dpef.
Poco male, tanto già la legge
collegata alla Finanziaria 2002 aveva preso a colpi di scure le previsioni,
ridimensionato le cifre e ridotto a 4,7 miliardi (invece di 8) le risorse
destinate alle grandi opere. Mancano all’appello più di 6 miliardi di euro, da
trovare chissà dove. Nel 2002 c’era già stato un calo degli stanziamenti
pubblici per le opere (un 1 per cento in meno rispetto all’anno precedente).
Ora è arrivata la Finanziaria dei «sacrifici» per il 2003: i particolari per le
infrastrutture sono rimandati a una legge collegata, prevista per il prossimo
novembre; ma già ora appare che, se non ci saranno ulteriori cali, non ci
saranno neppure incrementi. E le opere straordinarie ruberanno risorse alle
opere ordinarie.
In
più, lamentano i costruttori, il decreto legge 194 del settembre 2002 ha reso
più difficile spendere anche i soldi che lo Stato ha già stanziato. Fino a ora,
le cifre che non si riuscivano a spendere (i cosiddetti residui passivi)
restavano a bilancio per i successivi tre anni, e c’era la speranza di
recuperarle. Adesso non più: i residui passivi stanno nel bilancio dello Stato
solo un anno, poi via. Poiché i tempi per completare una grande opera (ma anche
una piccola) sono molto lunghi, è ipotizzabile la cancellazione di quasi tutte
le risorse stanziate di anno in anno per la realizzazione di infrastrutture. I
soldi – si lamentano i costruttori associati nell’Ance – spariranno via via che
saranno bandite le gare, anzi anche prima.
Fare
un’opera, infatti, è un’impresa. Dal momento in cui questa è immaginata,
occorrono 511 giorni (cioè 1 anno e 5 mesi) perché venga consegnato il
progetto. Altri 74 giorni (2 mesi e mezzo) perché il progetto sia approvato.
Poi 161 giorni (oltre 5 mesi) per la pubblicazione del bando. Se le opere sono
«grandi» (valore: più di 15 milioni di euro) per la progettazione occorrono
1.206 giorni (3 anni e 5 mesi) e altri 111 (4 mesi circa) per la sua
approvazione. Non è finita. Ci vogliono 48 giorni per la presentazione delle
offerte da parte dei concorrenti alla procedura d’aggiudicazione, 45 giorni per
lo svolgimento della gara, 65 per la stipula del contratto, 42 per la consegna
dei lavori. Insomma: per poter cominciare a spendere i soldi dello Stato,
occorrono in media 904 giorni (circa 2 anni e mezzo).
Poi
si arriva finalmente ai cantieri. Ma per aprire un cantiere ci vogliono in
media 2 anni e 7 mesi, che diventano anche 4 anni e 9 mesi per le opere di
grandi dimensioni. A questo punto, e solo a questo punto, possono cominciare i
lavori veri e propri. Secondo i dati dell’Ance, questi durano in media 223
giorni. In definitiva: per realizzare un’opera pubblica occorrono 3 anni e 2
mesi, che diventano 5 anni e 4 mesi nel caso di grande opera. E questo se tutto
va liscio. Cosa che, in Italia, è rara.
ATTO TERZO.
L’AZZARDO
Il bello di tutto il castello di
carte delle grandi opere pazientemente messo in piedi da Silvio Berlusconi,
Pietro Lunardi e Giulio Tremonti (il ministro dell’Economia) è che, come tutti
i castelli di carte, finirà per cadere. E rivelarsi, addirittura, una truffa ai
danni dell’Unione europea. Potrà trascinare l’Italia nel pozzo senza fondo
della bancarotta e perfino mettere in pericolo la stabilità dell’euro. Per
verificare questa ipotesi nera, anzi nerissima, occorre farsi guidare da un
ricercatore bolognese, Ivan Cicconi, già capo della segreteria tecnica del
ministro Nesi e direttore del Quasco, un centro studi specializzato nel campo
delle costruzioni.
Qual
è il modello finanziario e contrattuale inventato per le grandi opere? È quello
codificato da tre leggi. La prima è quella voluta da Berlusconi per le
cosiddette opere strategiche, cioè la legge Obiettivo (numero 443 del 2001, con
conseguente decreto legislativo numero 190 del 2002), che dà vita al deus ex
machina del nuovo sistema, un dinosauro economico chiamato general
contractor: cioè una mega-impresa a cui sarà affidato dallo Stato il
compito di decidere tutto, progettazione, affidamenti, appalti, direzione
lavori, esecuzione, collaudo... La seconda è quella definita da Tremonti, cioè
la legge salva-deficit (numero 112 del 2002), che fa nascere dal nulla due
società, due centauri un po’ pubblici e un po’ privati (di capitale pubblico ma
di diritto privato): la Patrimonio dello Stato spa e la Infrastrutture spa. La
terza nasce dalla testa di Lunardi ed è la legge delega sulle infrastrutture
(numero 166 del 2002), che stravolge la precedente legge Merloni sui lavori
pubblici e introduce la quadratura del cerchio, il miracolo per fare ciò per
cui non si hanno i soldi: il project financing.
La
trinità Berlusconi-Tremonti-Lunardi ha così inventato un modello nuovo, anzi
nuovissimo, per far sorgere le grandi opere. In verità, i tre dovrebbero
ringraziare un genio della Prima Repubblica, Cirino Pomicino, inventore nel
lontano 1991 dell’architettura contrattuale e finanziaria della Tav, l’Alta
velocità ferroviaria. Un po’ lo hanno ringraziato, citando la Tav quando è
stato presentato il decreto attuativo della legge Obiettivo: «L’affidamento a general
contractor ha consentito alle Ferrovie dello Stato di dimezzare i tempi di
realizzazione delle tratte Alta velocità avviate, con una spesa finale non
dissimile». L’affermazione, naturalmente, non trova riscontri in natura: per
esempio la tratta Tav Bologna-Firenze (che Lunardi conosce bene, perché con la
sua società Rocksoil è tuttora consulente dei lavori) è partita nel settembre
1991 con una previsione di spesa di 2.100 miliardi di vecchie lire.
Oggi
sono passati 11 anni, i cantieri non sono ancora chiusi e i costi sono
lievitati a 8.150 miliardi: raddoppiati i tempi, quadruplicati i costi. Ma
queste sono quisquilie. L’importante è che il «nuovo» modello – in realtà il
vecchio modello Tav con in più un tocco di cosmetici, un po’ di rossetto qua,
un filo di rimmel là – abbia realizzato una sorta di sanatoria nei confronti
dei profili di illegittimità del sistema Tav, già descritti e denunciati
dall’Antitrust e dalla Procura di Perugia. E abbia introdotto il general
contractor come soggetto economico incaricato della progettazione e della
realizzazione, senza alcuna responsabilità sulla gestione finale dell’opera. E
il project financing come sistema per attingere soldi privati, ma del
tutto garantiti dallo Stato.
CENTAURI E
DINOSAURI
Un bel sistema. Il general contractor progetta e costruisce l’opera, ma senza rischi: sa che non la gestirà, che non dovrà ricavarci i soldi spesi, perché questi sono interamente pagati e garantiti dallo Stato. Non ci si potrà stupire, dunque, se il general contractor spingerà a far durare il più possibile i lavori e a far lievitare al massimo i costi (esattamente quello che è già successo con le tratte dell’Alta velocità: dovevano costare 18.400 miliardi di lire nel 1991, nell’agosto 2001 costavano già 34.880 miliardi, alla fine lieviteranno, secondo una stima del Quasco, verso i 76.100 miliardi). Inoltre il general contractor, a differenza del concessionario tradizionale, di lavori o di servizi pubblici, potrà agire in regime privatistico, potrà affidare i lavori a chi vorrà, anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia non sarà mai perseguibile per corruzione: è un privato, eventuali tangenti saranno soltanto «provvigioni».
Altra
idea geniale, quella del project financing: i soldi arriveranno in parte
direttamente dallo Stato, e per il resto dai privati (le banche), ma garantiti
totalmente dallo Stato, attraverso Infrastrutture spa o Stretto di Messina spa
(società interamente pubbliche, ma di diritto privato). Così per anni lo Stato
avrà un debito, ma occulto, che non sarà iscritto nel bilancio dello Stato e
non inciderà nel calcolo dei parametri del Patto europeo di stabilità. Alla
fine, però, al tavolo di poker delle grandi opere le fiches dovranno essere
trasformate in soldi. Al termine dei lavori, dopo – chissà – una decina d’anni,
la Tav spa, la Infrastrutture spa, la Stretto di Messina spa (e, in ultima
analisi, il ministero dell’Economia) dovranno restituire i prestiti delle banche.
E di colpo si aprirà una voragine. Capace di affondare l’Italia e di trascinare
nel disastro l’euro.
Perfino
l’Ance (l’associazione dei costruttori italiani) è arrivata a fischiare il
numero due di Lunardi, il viceministro Ugo Martinat, durante una manifestazione
organizzata il 26 settembre alla Luiss di Roma. Ormai solo l’Agi
(l’associazione che riunisce le trenta imprese grandi e grandissime) plaude
alla linea Lunardi e lo appoggia con trasporto, aiutandolo anche all’interno
del ministero. Dicono i sostenitori del modello grandi opere: le opere
garantiranno utili sufficienti a pagare i debiti. Veramente improbabile: per la
sola Tav la quota annua da restituire sarà prevedibilmente intorno ai 5 mila
miliardi di vecchie lire; la quota annua di utili disponibili grazie ai
biglietti ferroviari potrà arrivare al massimo attorno ai 500 miliardi di lire.
Per
uscire da questa situazione, dunque, dovremmo sostenere per una quindicina
d’anni una manovra finanziaria pari a 4.500 miliardi di lire. Povera Italia,
povera Europa. Ma intanto, che importa. Il ponte sullo Stretto avrà la posa
della prima pietra, si taglieranno nastri e si stapperanno champagne. Politici
sorridenti cominceranno a far «girare soldi», a dare appalti e subappalti, ad
accontentare amici e amici degli amici, a raccogliere applausi e voti. Domani,
si vedrà.