Dal documento:
Proposte, analisi ed approfondimenti del Progetto Logistica
di Confindustria e del suo Sistema Associativo
Estratto a cura del Comitato NO-TAV Torino
versione completa (1.15MB) su: http://www.assologistica.com/documenti/altro/allegati/DossierConfindustriaLogisticapercrescere.pdf
PARTE I: LE PROPOSTE
1. LA LOGISTICA COME “PROGETTO-PAESE”
PARTE II: LA DIMENSIONE ECONOMICA E STRUTTURALE
1. GLI SCENARI: LE OPPORTUNITÀ LOGISTICHE PER IL PAESE ED IL MEZZOGIORNO
1.1. La nuova geografia economica globale: tendenze e previsioni
1.2. La centralità mediterranea e nazionale nei traffici marittimi commerciali
2. LA LOGISTICA COME FATTORE DI COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE
2.1. L’evoluzione localizzativa e organizzativa del settore manifatturiero
1. AUTOTRASPORTO
1.1. Il trasporto su strada: mobilità e infrastrutture
2. SETTORE FERROVIARIO
2.1. La situazione di mercato
2.2. Le prospettive di crescita dei flussi di traffico
2.3. Le criticità da superare
3. SETTORE MARITTIMO E PORTUALE
3.2. L’assetto infrastrutturale del settore
4. SETTORE AEREO
4.1. Le potenzialità e gli effetti della liberalizzazione
4.2. Il profilo economico del trasporto aereo
4.5. La progressiva liberalizzazione del settore aereo e l’evoluzione normativa nazionale
4.6. Le criticità del settore in funzione logistica
5. IL SISTEMA INTERPORTUALE E INTERMODALE
5.1. L’importanza nell’economia italiana
5.2. L’assetto infrastrutturale
5.3. Il quadro normativo
PARTE I: LE PROPOSTE
1. LA LOGISTICA COME “PROGETTO-PAESE”
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Il progetto ha avuto un primo significativo risultato con l’elaborazione di un documento di “indirizzi di base” (La Sfida Logistica), realizzato da Confindustria, Federtrasporto e Federturismo, coi contributi del sistema associativo.
Il messaggio di fondo di questo primo documento è stato non solo quello di individuare le inefficienze e i divari del sistema produttivo e del sistema Paese rispetto ai principali concorrenti esteri, ma anche di esaltare le grandi opportunità che una vera “politica logistica” può offrire all’economia nazionale ed alle imprese, da quelle più direttamente coinvolte nella logistica a quelle che se ne possono servire come vero strumento di crescita competitiva.
“La Sfida Logistica” ha avuto anche il merito di inquadrare, in una visione più organica, le varie linee di intervento sulle quali Confindustria ed il suo sistema associativo lavorano da tempo (come la liberalizzazione dell’autotrasporto, la riforma della legge quadro sui porti, la politica infrastrutturale, lo sviluppo del trasporto combinato, ecc.), consentendo di finalizzarle verso obiettivi generali di sistema più coerenti, ma anche di dar loro contenuti più mirati ed efficaci.
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Le priorità di azione poste alla base del Progetto Logistica di Confindustria, necessarie all’individuazione di proposte essenziali per la crescita e la competitività della nostra economia, vertono su tre direttrici fondamentali:
• Europa. L’Italia è una delle principali “porte d’accesso” all’intera economia europea, per le merci provenienti da altri continenti e per le imprese in cerca di nuove localizzazioni strategiche; ma la sua collocazione, in particolare, le assegna un “vantaggio geografico assoluto” per i flussi economici e commerciali con l’Estremo Oriente, il Sub-Continente Indiano, il Medio Oriente ed il Nord Africa, cioè con le economie emergenti più rilevanti e dinamiche o con interessanti prospettive di sviluppo. Il nostro territorio è già ora in grado di accogliere questi imponenti flussi grazie ad una diffusa e dinamica portualità, nella quale il Mezzogiorno può vantare un importante posizionamento strategico. Il nostro territorio non può, quindi, rischiare di diventare un “imbuto”, a causa dei ritardi sull’adeguamento e l’ampliamento delle direttrici nazionali, della scarsa capacità intermodale e interportuale e delle difficoltà di transito delle Alpi. Esistono tutti i presupposti perché la “naturale” capacità logistica del nostro Paese nel quadrante europeo possa pienamente svilupparsi, per cogliere tutte le opportunità che essa offre alla competitività del Paese nel suo insieme e delle nostre imprese. Ciò presuppone una assoluta e prioritaria attenzione, nell’ambito della politica infrastrutturale, alle grandi infrastrutture di interesse europeo, ai TEN (Trans European Networks) dei valichi alpini, delle Autostrade del Mare, delle dorsali ferroviarie e autostradali e dei grandi nodi (porti, aeroporti e interporti) di scambio; ma, allo stesso tempo, risulta determinante sviluppare l’accessibilità delle reti interne, con un’azione specificamente dedicata alle “infrastrutture minori”, ma non meno importanti di quelle più grandi.
• Imprese. Il rilancio economico del Paese passa necessariamente attraverso il rilancio competitivo delle nostre imprese industriali, di quei marchi, di quella “impronta italiana” che ha conquistato i mercati internazionali; tutto questo può trovare nuove e più ampie opportunità di crescita sia nell’innovazione sia, proprio grazie alla logistica, nell’adozione di nuovi “modelli organizzativi” di impresa, non più e non solo fondati sulle nostre radici territoriali (comunque essenziali per la “riconoscibilità” e l’innovazione dei nostri prodotti), ma orientati sempre più verso l’internazionalizzazione della produzione e del consumo. Ma la logistica è anche una grande opportunità di sviluppo produttivo settoriale, tuttora ampiamente inespressa, soprattutto nel confronto internazionale; per questo è fondamentale un’efficace politica industriale per lo sviluppo delle imprese logistiche orientata ai mercati mondiali ed al mercato nazionale, che sia in grado di sostenere le imprese italiane, logistiche e industriali, nella competizione globale.
• Turismo. L’Italia ha anche, da sempre, un “prodotto” economico inimitabile, ineguagliabile e, se saremo in grado di conservarlo e valorizzarlo al meglio, inesauribile; è il “prodotto-paese” fatto di bellezze paesaggistiche, artistiche e storiche, ma anche di accoglienza; tutti elementi che sono alla base della nostra tradizionale attrattività turistica. Questa grande industria nazionale può avere nuove e più ampie opportunità di crescita, se sapremo coniugare la mobilità dal locale alle grandi distanze, per attrarre e gestire i grandi flussi aggiuntivi di persone che potranno arrivare dai paesi emergenti.
Queste finalità prioritarie possono sembrare scontate, ovvie, assolutamente condivisibili; ma questo non basta per sviluppare la logistica del nostro Paese. È invece necessario che esse rappresentino veramente il metro di valutazione, la discriminante fondamentale per decidere cosa fare e con quali risorse, cosa scegliere tra le tante alternative possibili, per vedere finalmente realizzate quelle effettivamente importanti e decisive per lo sviluppo del nostro Paese.
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PARTE II: LA DIMENSIONE ECONOMICA E STRUTTURALE
2. GLI SCENARI: LE OPPORTUNITÀ LOGISTICHE PER IL PAESE ED IL MEZZOGIORNO
1.1. La nuova geografia economica globale: tendenze e previsioni
Nel corso dell’ultimo decennio, l’economia mondiale ha mostrato profondi cambiamenti. Le dinamiche di crescita si sono sensibilmente modificate verso i Paesi emergenti e le previsioni per il futuro appaiono confermare questa tendenza anche nel prossimo decennio.
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Aggregando i dati della straordinaria crescita di Cina e India a quelli di ridimensionamento del contributo del Giappone e di sostanziale stabilità del resto dei Paesi asiatici, ne emerge una profonda redistribuzione dell’economia mondiale, molto più orientata ad Est.
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L’impatto sugli scambi commerciali è altrettanto straordinario, come già evidenziato nel decennio 1995-2004. In questo periodo, la quota di commercio mondiale dell’UE a 15 e degli USA hanno avuto una lieve flessione (dal 41,4% al 40,7% la prima e dal 13,7% al 13,5% i secondi).
L’aggregazione
delle più grandi economie asiatiche (Cina, India e Giappone) ha invece accresciuto
la propria quota di commercio mondiale dal 10,3% al 12,2%.
Le previsioni per il decennio successivo vedono un calo molto più sensibile delle quote di commercio mondiale di USA e UE (rispettivamente al 12,1% ed al 36,2%), mentre le economie asiatiche più importanti (Cina, India e Giappone) aumenterebbero complessivamente le proprie al 17,9%.
La quota totale sul commercio mondiale dell’Asia è già cresciuta dal 31,1% del 1995 al 34,8% del 2004, ma nel 2014 potrebbe aumentare fino al 39,1%.
L’andamento fortemente espansivo dell’economia asiatica e dell’interscambio commerciale ha avuto sensibili impatti soprattutto a livello europeo, viste le profonde modifiche in atto nella partnership commerciale dell’UE a 25.
Tra il 1999 ed il 2004 è aumentata sensibilmente la quota di interscambio con la Cina (dal 5% all’8,8%) e leggermente quella con l’India, mentre le quote con le altre principali economie hanno registrato una sensibile riduzione con USA e Giappone.
Oltre che rendere espliciti i profondi cambiamenti nella geografia economica mondiale degli ultimi anni e dei prossimi, questi dati evidenziano anche un’implicazione altrettanto rilevante per i trasporti e la logistica, cioè un sensibile aumento della mobilità sulle grandi distanze, già in atto ed in ulteriore sviluppo.
1.2. La centralità mediterranea e nazionale nei traffici marittimi commerciali
In questo sviluppo dei traffici commerciali sulle grandi distanze, vi è un’altra implicazione che coinvolge direttamente il nostro Paese, cioè che nella mobilità dei flussi commerciali tra Asia ed Europa, in cui è evidentemente privilegiata la modalità marittima (e, per alcune specificità merceologiche, quella aerea), la principale rotta di traffico vede necessariamente il Canale di Suez ed il Mediterraneo come essenziali aree di transito degli scambi e, in quest’ambito, emerge l’evidente centralità geografica di Italia e Mezzogiorno.
Tra le porte di accesso ai mercati europei del Mediterraneo, il nostro Paese presenta un vantaggio “non contendibile” e questo offre una straordinaria opportunità di sviluppo dei trasporti e della logistica: in termini di incremento sia dei transiti portuali verso altri porti (transhipment) sia dell’instradamento terrestre verso i mercati europei continentali (nave-ferrovia e nave-strada).
Di questa rinnovata centralità commerciale del Mediterraneo e, in particolare, del nostro Paese, i segnali sono già evidenti da anni, soprattutto nell’aumento del traffico container dei nostri porti, specie del Mezzogiorno.
Nel periodo 1996-2003 la movimentazione delle merci nei porti italiani è aumentata del 27,5% (da 356 a 454 milioni di tonnellate), mentre quella dei container è cresciuta del 134% (da 3,8 a 8,9 milioni di TEU).
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Nel 1990, la quota del traffico
container nei porti italiani era distribuita per il 62% al Nord, 23% al Centro
e per il 15% al Mezzogiorno. Nel 2003 si rileva una sostanziale inversione
di ruoli, con il 57% del traffico container che si svolge nei porti meridionali,
il 36% in quelli del Nord ed il 7% in quelli del Centro.
Il fatto più straordinario è che ciò è avvenuto con una crescita dei traffici in tutte le aree del Paese. Vale la pena di sottolineare anche che la crescita dei traffici container nel mezzogiorno si è, dapprima, concentrata esclusivamente su Gioia Tauro e, nel tempo, si è ampliata ad altri porti, come Cagliari e Taranto, che stanno sensibilmente aumentando la loro capacità competitiva.
In sostanza, ciò che è emerso è un vero e proprio “sistema della portualità meridionale” specializzato sui container, che potrebbe offrire a quest’area e al nostro Paese nel suo insieme delle grandi opportunità di crescita, non solo per le imprese più direttamente coinvolte nella logistica, nella movimentazione e nel trasporto, ma allo sviluppo produttivo complessivo, in funzione della possibilità di trattenere i flussi di merci sul territorio, per le fasi finali di lavorazione per i mercati di consumo.
Alcune simulazioni sulla “manipolazione” delle merci trasportate dai container evidenziano un impatto finanziario di notevole interesse e, data la concentrazione nel Mezzogiorno di tale tipo di trasporto [1] , è possibile immaginare un attendibile progetto di sviluppo per quest’area, fondato sulla “filiera del container”, che vada dal semplice transhipment, allo spacchettamento, alla lavorazione ed al re-instradamento (via mare o via terra) delle merci.
Le prospettive di sviluppo logistico e produttivo indotte dai traffici marittimi sono, quindi, rilevanti e sarebbe irresponsabile non cercare di sfruttarle appieno, soprattutto nel Mezzogiorno. Le stime sulla crescita del traffico container a livello mondiale sono estremamente interessanti e evidenzierebbero per i porti del Sud Europa-Mediterraneo una crescita più sostenuta dei porti del Nord Europa, su valori che arrivano fino al raddoppio della domanda nell’arco di un decennio.
In termini di movimentazione dei porti mediterranei per transhipment e importexport le stesse dinamiche espansive risulterebbero anche più accentuate delle precedenti.
Rispetto a previsioni così favorevoli, diventa essenziale la capacità di saperle cogliere e ciò coinvolge direttamente l’assetto strutturale del nostro Paese, in termini di mercati, imprese e infrastrutture. Dai dati più recenti, le dinamiche di crescita di questi ultimi anni stanno avendo un sensibile rallentamento. Più in generale, i porti del Nord Europa mostrano segnali recenti di maggiore dinamicità rispetto a quelli mediterranei, mentre in quelli del Sud Europa la competizione si sta facendo sempre più serrata. Persino la leadership nazionale (e di Gioia Tauro) sul transhipment mediterraneo non sembra più essere così sicura, vista la crescente concorrenza dei porti spagnoli ed egiziani. Il lancio di nuovi porti container (Cagliari e Taranto) ha in qualche misura ridimensionato il rallentamento della crescita o l’arretramento degli scali più rilevanti (come Gioia Tauro e Genova), anche perché giunti ad un livello prossimo alla saturazione [2] .
La portualità nazionale si trova, complessivamente, in una situazione di criticità, ma che per molti versi può essere intesa in senso positivo. Ci sono grandi opportunità di catturare quote importanti dei traffici marittimi di merci, ma c’è bisogno di adeguare la capacità infrastrutturale di base (banchine, aree di movimentazione, attrezzature e tecnologie, …). C’è la possibilità non solo di movimentare, ma anche di “lavorare” i transiti; tuttavia, scarseggia la retroportualità o l’interportualità integrata ai porti. C’è un’intermodalità con la ferrovia e la strada ancora in gran parte sfruttare, per problemi di raccordo, ma anche di impatto su aree urbane o su reti con evidenti segni di saturazione o congestione.
Si tratta di una serie di nodi critici rilevanti, ma allo stesso tempo rappresentano anche dei passaggi determinanti per sfruttare le opportunità straordinarie di sviluppo logistico del Paese.
2. LA LOGISTICA COME FATTORE DI COMPETITIVITÀ INDUSTRIALE
2.1. L’evoluzione localizzativa e organizzativa del settore manifatturiero
Un sistema logistico moderno ed efficiente rappresenta oggi una leva fondamentale per incrementare la competitività del settore manifatturiero e migliorare le prospettive dell’economia nazionale. Nell’ultimo decennio, infatti, l’importanza della logistica come strumento funzionale all’attività dei settori industriali, cioè come insieme di funzioni che coadiuvano e rendono più produttivo l’intero ciclo della produzione manifatturiera (in termini di supply chain), ha acquistato un peso notevole. Per di più, rispetto al passato, il settore logistico ha rafforzato la propria indipendenza rispetto al manifatturiero, esprimendo autonome potenzialità produttive e occupazionali, ed è quindi in grado di contribuire significativamente alla ricchezza nazionale, in termini di valore aggiunto e forza lavoro occupata.
Tra i fattori che hanno reso così importante il trasporto e la logistica va annoverato anzitutto il cambiamento della struttura organizzativa e geografica della produzione manifatturiera, la quale oggi viene svolta facendo ricorso sempre più massiccio all’outsourcing, in misura sempre più rilevante fuori dei confini territoriali del singolo paese; diverse fasi del ciclo produttivo si distribuiscono addirittura su più continenti.
L’esternalizzazione di singole fasi del processo produttivo (in particolare delle fasi non core) è dettata, in generale, dalla necessità di guadagnare flessibilità di fronte all’incertezza di mercati che, a seguito della velocità di innovazione tecnologica, della globalizzazione e, quindi, della sempre maggiore competizione, sono diventati più instabili e turbolenti.
A questo proposito assume un rilievo particolare, ai fini dell’analisi sulla logistica, la tendenza a spostare le fasi finali della produzione al di fuori degli stabilimenti. L’esternalizzazione di queste fasi, che consistono essenzialmente nella cosiddetta customisation (packaging, pezzamento, imballaggio), risponde all’esigenza di differenziare il prodotto finale in relazione allo specifico mercato regionale verso il quale è diretto, e determina la localizzazione geografica delle fasi finali della produzione presso i grandi hub e i grandi nodi di interscambio modale, dove si collocano anche i centri di deposito/smistamento e distribuzione.
L’outsourcing è, dunque, un processo che dipende da cause di fondo diverse dal semplice vantaggio nei costi di produzione fuori dell’impresa. Anche se questi ultimi, in presenza di una generale situazione di libera circolazione delle merci e in concomitanza con una forte riduzione dei costi di trasporto, rappresentano un incentivo molto importante alla delocalizzazione geografica.
La spinta a localizzare unità produttive presso paesi terzi non è nuova. Tuttavia, va precisato che le delocalizzazioni produttive, che oggi interessano principalmente l’Est Europeo (es. Romania, Bulgaria) e il far east (in particolare la Cina), sono ispirate a un obiettivo diverso da quello perseguito negli anni ’70 e ’80 dalle imprese multinazionali. Allora si ricercava un contatto diretto con il mercato di sbocco dove si producevano direttamente i prodotti finiti, risparmiando sui costi alternativi del trasporto prima che sui costi di produzione in loco.
Oggi, i costi di trasporto si sono notevolmente ridotti e, nella gran parte dei casi, gli stabilimenti localizzati nei paesi terzi non hanno un rapporto autonomo e diretto con i mercati locali. Si tratta, piuttosto, di unità produttive dove si svolgono alcune fasi della produzione, e che effettuano poi scambi di semilavorati con la casa madre collocata altrove o in patria.
La delocalizzazione della produzione è resa evidente dalla enorme crescita dei volumi di merci trasportate e dalla contestuale riduzione del peso relativo dei traffici domestici, cioè di quelli che avvengono all’interno dei territori nazionali, in rapporto a quello dei traffici internazionali e intercontinentali. Già all’inizio degli anni ’90 le imprese europee hanno cominciato a mostrare una chiara tendenza alla riduzione delle quote di approvvigionamenti provenienti dai mercati nazionali e a incrementare le forniture presso mercati esteri, anche extra-continentali. Tuttavia, secondo le valutazioni più accreditate, tale evoluzione è stata ancora più marcata nel periodo 1998-2005.
E proprio nell’ultimo decennio si è affermata in maniera sempre più marcata la tendenza, da parte delle imprese manifatturiere europee, a dislocare intere fasi della propria produzione presso paesi terzi. Il mercato di riferimento per le forniture industriali tende, così, a diventare sempre più ampio e le imprese europee si riforniscono con sempre maggiore frequenza presso stabilimenti e magazzini collocati al di fuori dei propri confini nazionali e fuori dell’Europa.
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1. AUTOTRASPORTO
1.1. Il trasporto su strada: mobilità e infrastrutture
Tra tutte le modalità di trasporto, quella stradale riveste grande importanza, tanto per la mobilità dei passeggeri quanto per la movimentazione delle merci.
La prevalenza della strada rispetto alle altre modalità di trasporto è dovuta sia alla flessibilità operativa che a quella di contrattazione, alla capillarità e rapidità del trasporto, nonché all’estensione e ramificazione della rete stradale, soprattutto nel Nord Italia.
I dati del traffico totale interno relativi al 2004, evidenziano che su strada si è svolto il 92,4% del trasporto di passeggeri (in termini di passeggeri/km) ed il 65,3% del trasporto nazionale merci (in termini di tonnellate/km), mentre la quota del trasporto su rotaia risulta, rispettivamente, del 5,3% e dell’11,9% e quella del trasporto per vie d’acqua, dello 0,4% e del 17,5%. Il sistema viario nazionale risulta, quindi, fortemente sollecitato dal lato della domanda.
A tale dinamica non corrisponde, però, un’adeguata offerta infrastrutturale né in termini di caratteristiche tecniche (solo il 20% della rete autostradale nazionale è a 3 corsie), né in termini di omogeneità della dotazione infrastrutturale nelle diverse aree del Paese (il 51, 3% della rete autostradale è nelle Regioni del Nord Italia).
La mancata rispondenza tra domanda di trasporto e offerta infrastrutturale comporta pesanti esternalità negative, legate alla saturazione e congestionamento delle rete stradale (incidentalità e inquinamento ambientale).
1.2. La rete viaria nazionale e le criticità del sistema
La consistenza della rete stradale italiana primaria (da cui sono escluse le strade comunali) è risultata, al 31 dicembre 2003, di 172.843 km, ripartiti in 6.487 km di autostrade, 17.250 km di strade statali e 149.106 km di strade regionali e provinciali.
La distribuzione delle infrastrutture stradali è piuttosto disomogenea: l’Italia settentrionale ha la maggiore dotazione di autostrade sia rispetto ai residenti (1,3 km ogni 10.000 abitanti), sia rispetto alla superficie (2,8 km ogni 100 kmq), sia rispetto al parco circolante (2,1 km ogni 10.000 veicoli). Nel Sud, la rete autostradale è nettamente inferiore a quella del Nord registrandosi, rispettivamente, il 30%, il 65% ed il 17% in meno di autostrade per abitante, kmq e per veicolo circolante.
Per quanto riguarda le altre strade, invece, nell’Italia meridionale e insulare gli stessi indicatori relativi risultano migliori sia del Nord che del Centro, aree in cui i valori appaiono più uniformi.
Con riferimento alle criticità del sistema stradale, gli aspetti più rilevanti riguardano:
• la concentrazione dei flussi di traffico su alcune direttrici;
• lo squilibrio territoriale della domanda di trasporto su strada;
• la concentrazione di intensi flussi di traffico attorno alle aree industriali e urbane del Paese;
• la vulnerabilità del sistema: struttura e capacità della rete viaria nazionale sono esposte a “crisi” frequenti in corrispondenza di eventi eccezionali, a causa della mancanza di percorsi alternativi efficienti e di adeguate modalità di gestione delle reti e di informazione all’utenza.
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2. SETTORE FERROVIARIO
2.1. La situazione di mercato
Assetto concorrenziale dei settori del trasporto, operatori nazionali efficienti, competitivi e in grado di gestire il traffico di merci interno e internazionale, sono elementi cruciali per uno sviluppo equilibrato della logistica. Il settore ferroviario, strategico per lo sviluppo del trasporto merci nei prossimi anni e interessato da radicali riforme, si presta ad una analisi sotto questo profilo.
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Il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario in Italia è ormai sostanzialmente concluso e né sul segmento del trasporto di passeggeri, né su quello delle merci esistono vincoli normativi all’ingresso di nuovi operatori, con l’eccezione di quelli derivanti dalla richiesta reciprocità con altri paesi.
Il Decreto Legislativo 188/2003 ha sostanzialmente chiuso la fase di recepimento delle le Direttive UE relative al trasporto ferroviario.
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In particolare, il Decreto suddetto disciplina le attività delle Imprese Ferroviarie (regole contabili, possesso di licenza e certificato di sicurezza) e del Gestore dell’Infrastruttura (regole di accesso, prospetto informativo rete e Contratto di Programma con lo Stato), regola i diritti e i canoni di accesso all’infrastruttura ferroviaria (pedaggio, sconti e maggiorazioni, servizi aggiuntivi e il performance regime delle prestazioni del trasporto ferroviario), definisce le regole per l’assegnazione della capacità infrastrutturale (accordi quadro, richieste di tracce, assegnazione capacità in modo trasparente e non discriminatorio).
In Italia il processo di liberalizzazione ha prodotto la nascita di un mercato con 38 imprese ferroviarie dotate di licenza, di cui 17 dispongono anche del certificato di sicurezza e possono pertanto operare sulla rete ferroviaria nazionale; nel 2004 i nuovi operatori hanno coperto il 7,6% del mercato del trasporto merci in termini di tonnellate/km e l’11,7% in termini di tonnellate trasportate.
2.2. Le prospettive di crescita dei flussi di traffico
Le prospettive del settore ferroviario sono naturalmente legate all’andamento dei flussi di traffico, passeggeri e merci, che il nostro Paese sarà in grado di sviluppare e di attrarre.
Le previsioni di crescita della domanda di trasporto in Europa al 2010 sono pari al 2,3% medio annuo per quanto riguarda i viaggiatori e del 2,8% per le merci.
In questo quadro di crescita sono attesi significativi incrementi della quota modale del trasporto ferroviario, anche grazie allo sviluppo delle nuove infrastrutture, per le quali si prevedono investimenti di circa 600 miliardi di euro al 2020 solo per il potenziamento delle reti TEN.
In Italia il rilevante impegno in investimenti infrastrutturali negli ultimi anni ha posto le condizioni per un incremento della quota modale ferroviaria e consentirà di aumentare nel prossimo futuro in maniera significativa la capacità di trasporto su ferro.
In Italia, a seconda degli scenari macroeconomici e di politica dei trasporti che potranno realizzarsi, sono previsti tassi di crescita del trasporto ferroviario, al 2010, compresi tra il 3% e il 5% medio annuo, sia per i viaggiatori che per le merci; a fronte di tale positiva evoluzione, la quota ferroviaria del trasporto viaggiatori dovrebbe passare dal 5,2% del 2001 a oltre il 6% nel 2010, e quella delle merci dal 10,7% a circa il 14% nello stesso periodo.
Nel trasporto merci, per raggiungere l’obiettivo di crescita della modalità ferroviaria, si rende necessaria l’adozione di un “disegno di sistema” per la logistica italiana, che si fondi su un inequivocabile orientamento al riequilibrio modale, declinato all’interno della prospettiva di crescita del mercato.
Solo questo orientamento consentirà all’Italia di intercettare i grandi flussi di traffico non solo in termini di spostamenti fisici, ma soprattutto in termini di sviluppo delle attività ad essi connesse, che possono indurre una maggiore creazione di valore.
Certamente lo sviluppo della logistica italiana non può che far leva sul suo attuale punto di forza: la centralità nello scenario dei flussi di trasporto globali; ma deve anche fondarsi su un nuovo ruolo portante del sistema ferroviario italiano. Infatti, da un lato, il programma di potenziamento infrastrutturale su cui il Paese ha investito importanti risorse finanziarie consentirà di mettere a disposizione nuova capacità di trasporto sui grandi assi e sui valichi, mettendo in campo una straordinaria opportunità per il sistema dei trasporti. Dall’altro, l’apertura del mercato ha già aperto la strada alla crescita di nuove imprese, arricchendo la varietà e la tipologia dell’offerta di servizi ferroviari.
Nel trasporto passeggeri a media e lunga percorrenza l’attuale disciplina nazionale in materia tariffaria appare superata dal nuovo assetto competitivo. La completa liberalizzazione dei servizi di trasporto ferroviario in Italia ed il passaggio dal regime concessorio a quello autorizzativo hanno modificato il contesto di riferimento, rendendo necessaria la definizione di un nuovo quadro legislativo, che consenta alle imprese ferroviarie di agire su tutte le leve in grado di rendere sostenibili gli investimenti dal punto di vista economico.
La liberalizzazione tariffaria va ovviamente affiancata ad una politica di tutela della mobilità sociale che preveda, per alcune categorie di servizi base, il mantenimento di una regolazione dei prezzi, improntata a criteri di semplicità amministrativa e di trasparenza nei confronti dell’utenza.
Nel trasporto passeggeri locale, grazie alla progressiva entrata in esercizio delle tratte del sistema Alta Velocità, ci sarà una crescente disponibilità di capacità delle linee tradizionali per potenziare i servizi, soprattutto nelle penetrazioni delle grandi aree metropolitane che già ora presentano un deficit di offerta di servizi.
Le imprese ferroviarie sono quindi sollecitate ad effettuare rilevanti programmi di investimenti al fine di soddisfare le esigenze del mercato, sia per far fronte a maggiore domanda, sia per consentire un miglioramento significativo della qualità dei servizi offerti.
Alla luce di quanto evidenziato appare pertanto necessario ed urgente, sostenere il potenziamento del materiale rotabile attraverso un adeguamento delle risorse a disposizione dei servizi ferroviari regionali.
Nel campo delle merci le ferrovie possono dare un positivo contributo e svolgere un ruolo determinante nelle previsioni di evoluzione della logistica moderna.
Per i Paesi europei è in atto una sfida data dal processo di integrazione economica (“globalizzazione di ritorno”, legata al crescente peso del Far East e quindi dai traffici marittimi che entrano in Europa attraverso il canale di Suez) e dall’allargamento verso l’Est, che crea le prospettive per la formazione di un grande mercato della logistica e del trasporto, nel quale le imprese ferroviarie possono trovare una propria prospettiva di rilancio, a condizione che vengano modificati e adeguati alle esigenze del mercato alcuni aspetti fondamentali.
Occorre infatti considerare che il trasporto ferroviario di merci, per esprimere efficienza e ottimizzare l’operatività, non può rispondere in maniera rigida a standard operativi predefiniti, soprattutto in termini di programmazione, come avviene, di massima, per il trasporto ferroviario passeggeri.
Tale trasporto deve poter contare su più ampi margini di flessibilità e di priorità, in termini di “tracce” e di instradamenti, in particolare nelle ore notturne, e deve poter contare su un’altrettanta flessibilità e disponibilità da parte di altri partner, soprattutto nel cosiddetto “ultimo miglio” (ad es. terminalisti e altri operatori attivi nei porti, negli interporti, nei raccordi).
Senza l’apporto di un network di servizi ferroviari caratterizzati da qualità e competitività, l’intero sistema della logistica pare avviato inevitabilmente a confrontarsi in modo crescente con la congestione dei sistemi stradali; pertanto, se alle ferrovie serve la logistica, alla logistica servono sicuramente i servizi ferroviari.
2.3. Le criticità da superare
Per fare in modo che le imprese ferroviarie possano giocare un ruolo da protagoniste in uno scenario così movimentato, come è quello della logistica nelle moderne economie industriali, occorre lavorare molto non solo sulla componente soft della concezione del servizio ma anche sulla componente hard delle infrastrutture, nel cui caso evidentemente si scontano anche i tempi, non brevi, per la realizzazione degli investimenti necessari alla standardizzazione operativa dei processi di funzionamento ferroviario, che sono stati finora basati su logiche quasi esclusivamente nazionali.
Solo nei quindici Paesi che hanno dato vita all’Unione Europea, esistono le seguenti forti differenze:
• cinque diversi sistemi di trazione dei locomotori;
• quattordici sistemi di segnalamento;
• un diverso scartamento tra Francia e Spagna e tra Svezia e Finlandia;
• limiti alla lunghezza ed al peso dei treni che variano enormemente sia tra i diversi Paesi sia all’interno di una stessa nazione;
• differenze nelle sagome dei tunnel che costringono ad utilizzare materiale rotabile speciale nel caso di container di tipo high cube o nel caso di autostrade viaggianti.
A tutto questo deve rispondere un processo di “interoperabilità” (mezzi, personale e infrastrutture) che, per quanto già attivato soprattutto nei mezzi (locomotive interoperabili), ha dei tempi ancora lunghi di attuazione.
Per quanto riguarda poi l’intermodalità, il suo futuro è fortemente condizionato dalle scelte pubbliche e dalle decisioni di intervento con strumenti attivi di politica dei trasporti per sostenere lo sviluppo di questo traffico.
I prezzi unitari della vezione ferroviaria applicati ai servizi di trasporto combinato, in particolare strada-ferrovia, sono inferiori rispetto all’offerta del tutto ferrovia tradizionale con carri chiusi, per rispondere alla necessità di tenere conto delle rotture di carico, che certamente determinano costi aggiuntivi nella catena del trasporto.
La robusta crescita del traffico intermodale, in Italia, è stata sostenuta in modo determinante nei passati decenni dalle politiche tariffarie delle Ferrovie dello Stato, le quali hanno internalizzato i costi delle diseconomie della rottura di carico, con effetti negativi sul proprio conto economico.
Dopo molti anni, rispetto a molti altri paesi europei (Svizzera, Austria, Germania, Olanda e Danimarca), anche in Italia è stato adottato un provvedimento statale di incentivo pubblico all’intermodalità, contestualmente realizzato per l’interscambio strada-ferrovia e per quello mare-ferrovia.
È decisivo che questo incentivo alle imprese industriali che utilizzano l’intermodalità non si esaurisca nell’arco del previsto triennio, ma prosegua anche successivamente, al fine di consolidare un concreto, moderno ed efficiente modello di trasporto intermodale.
Altro aspetto di criticità per lo sviluppo dell’intermodalità è la dipendenza, in termini di performance del trasporto ferroviario, da ciò che avviene nel tratto terminale, nei primi o negli ultimi chilometri: l’ottimizzazione delle performance da “ultimo miglio” è fondamentale per salvaguardare la crescita dell’intermodalità.
La ferrovia è troppo spesso penalizzata, e in modo rilevante, da un eccesso di costi e di perdite di tempo a causa delle disfunzioni che si riscontrano in alcuni porti e inland terminal.
L’efficientamento dei processi produttivi da “ultimo miglio” e la riduzione dei costi ad esso correlati possono generare significative efficienze e porre le condizioni affinché il trasporto ferroviario/combinato possa mantenere e incrementare il trend di crescita degli ultimi decenni.
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3. SETTORE MARITTIMO E PORTUALE
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3.2. L’assetto infrastrutturale del settore
Nel complesso i 156 porti italiani, dislocati lungo 8 mila km di coste, con 1.153 accosti, con una lunghezza media per accosto di 245 metri, pur rappresentando un naturale reticolo infrastrutturale, appaiono un insieme di terminali marittimi non riconducibile a sistema, per il disordinato sovrapporsi di specializzazioni e servizi, per lo più funzionali a traffici locali, spesso oggetto di acceso confronto concorrenziale tra i porti stessi.
La competitività dei porti e la loro capacità di mantenere ed attrarre traffici, dipende, in larga misura, dalle caratteristiche fisiche degli accosti, dall’adeguatezza delle infrastrutture di servizio e dal grado di intermodalità. Al riguardo la situazione italiana appare alquanto critica, ove si osserva che il 18,5% degli accosti necessitano di lavori di rifacimento e manutenzione, che solo il 35% degli stessi è provvisto di arredo meccanico e che, per finire, soltanto il 21% è dotato di binari ferroviari.
Il CIPE ha individuato tra le opere prioritarie da realizzare ai sensi della Legge Obiettivo, n. 443/2001, una serie di interventi di adeguamento/potenziamento degli accessi ferroviari e stradali nei principali scali nazionali, volti a rafforzare i collegamenti intermodali nei porti, anche in funzione dello sviluppo del progetto delle “Autostrade del mare”, incluso tra i nuovi TEN (Trans European Networks). Si tratta di progetti il cui fabbisogno, in un arco decennale, viene valutato in 3.816 milioni di euro, e per i quali, tuttavia, si segnala una modesta disponibilità di finanziamenti (finora 30 milioni di euro, pari allo 0,7% del fabbisogno complessivo).
Per le opere ordinarie, manutenzioni ordinarie e straordinarie, secondo nostre stime relative all’anno 2000, i porti nazionali hanno potuto fare affidamento solo su circa 300 milioni di euro, trasferiti dal Bilancio dello Stato, e su altri 150 trasferiti da altri Enti pubblici.
La scarsità di risorse per l’adeguamento, l’ammodernamento e il potenziamento del patrimonio infrastrutturale portuale rappresenta, dunque, un vincolo per il conseguimento degli obiettivi di crescita del sistema portuale nazionale, nella prospettiva di una consistente espansione dei traffici marittimi mondiali e, in particolare, mediterranei.
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4. SETTORE AEREO
4.1. Le potenzialità e gli effetti della liberalizzazione
Il settore aereo, nonostante la maggiore ciclicità e salvo alcune fasi di rallentamento riconducibili a precisi eventi congiunturali (es. 11 – set – 2001), è stato caratterizzato da una veloce crescita della domanda. L’espansione continua del mercato ha indotto i governi, su impulso delle istituzioni comunitarie, a liberalizzarlo e deregolamentarlo.
Le riforme varate in sede europea hanno dunque esteso al trasporto aereo la normativa comunitaria sulla concorrenza e, nel settore in esame, la liberalizzazione e l’introduzione della concorrenza sono un fatto di tutta evidenza. I riflessi sulla struttura del settore (riorganizzazione delle imprese, uscita dal mercato di molti operatori) e sul servizio offerto agli utenti (qualità, quantità e tariffe) sono sotto gli occhi di tutti, direttamente percepibili.
Nuove compagnie sono entrate sul mercato europeo e le ex compagnie nazionali di bandiera sono entrate in competizione tra loro. Si è prodotta una situazione di concorrenza tra i vettori a lungo raggio (internazionale, intercontinentale), ma sono entrati anche nuovi operatori di tipo charter a raggio nazionale o regionale nei voli interni.
Le principali ex compagnie di bandiera hanno reagito con riorganizzazioni e ristrutturazioni interne. Da un lato, hanno diminuito le rotte servite e concentrato le proprie attività negli scali di maggiori dimensioni, lasciando gli aeroporti periferici come basi di appoggio per molte compagnie nuove entranti (low cost, charter). Dall’altro lato, hanno ridotto le risorse impiegate, in particolare il personale in servizio e le flotte a disposizione.
Si calcola che, dopo la deregolamentazione, nel periodo 1993-98 oltre 130 nuovi operatori sono entrati nel settore in Europa aggiungendosi alle oltre 120 compagnie incumbent. Le razionalizzazioni interne hanno riguardato anche i nuovi vettori, ma la spinta al risparmio sui costi non è risultata sempre efficace. Per questo, oltre il 50% delle imprese di trasporto aereo – tra quelle operanti prima della riforma e quelle create successivamente – sono uscite dal mercato.
È evidente che le potenzialità del trasporto aereo, in regime di concorrenza a livello nazionale ed europeo, sono diverse per passeggeri e merci. Il vettore aereo si presta al trasporto di merci ad alta intensità di valore, ma su scala quantitativa molto ridotta rispetto a quanto avviene su strada, per mare o per ferrovia. Questo, da un lato, spiega perché la liberalizzazione del settore aereo ha riguardato soprattutto il comparto passeggeri, ma, dall’altro lato, rende evidente che una maggiore concorrenza è potenzialmente in grado di determinare, a favore del comparto merci, effetti positivi analoghi al comparto passeggeri, con ricadute estremamente positive sui prezzi dei beni trasportati e, dunque, sulla competitività delle nostre produzioni.
L’esperienza del settore aereo sembra tuttavia confermare anche che il processo di liberalizzazione va attuato con continuità, ma con gradualità se si vuole evitare, a fronte di un deciso miglioramento delle tariffe e dei servizi per l’utenza, che la rapida apertura del mercato e la concorrenza esasperata possano produrre ripercussioni in alcuni casi piuttosto pesanti sulle imprese del settore.
Anche nel settore aereo si possono, comunque, conseguire ulteriori miglioramenti, che riguardano soprattutto le infrastrutture e le gestioni aeroportuali. In particolare, nuovi aeroporti e nuove infrastrutture dovrebbero essere realizzati in stretta connessione con le esigenze territoriali (domanda di traffico merci e passeggeri). Per quanto riguarda le gestioni aeroportuali, ci sono spazi per migliorare gli aspetti legati agli affidamenti e alle concessioni.
4.2. Il profilo economico del trasporto aereo
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Il trasporto aereo figura tra i settori del terziario che presentano una dinamica negativa degli indici di fatturato nel periodo 2002-2004. In termini di variazioni percentuali rispetto all’anno base (2000), si evidenzia una forte contrazione dell’indice nel 2002 (-9,1%), una sua invarianza nel 2003 ed un nuovo significativo calo nel 2004
(-2,7%).
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Rispetto al 2002, i dati più recenti evidenziano poi una crescita del numero di passeggeri (+10,4%) e di cargo
(+ 5,6%) negli scali italiani.
La nota congiunturale consuntiva per il 2004 pubblicata da CONFETRA conferma il trend positivo registrato nella movimentazione di merci per via aerea. Si tratta prevalentemente di merci che per il loro contenuto economico o per ragioni di rapido deterioramento giustificano il ricorso alla navigazione aerea. L’80,1% dei viaggi ha, infatti, valenza internazionale, e proprio le spedizioni internazionali hanno registrato un incremento del 3,2% rispetto al 2003. Tuttavia, la movimentazione delle merci rappresenta il tallone d’Achille del settore aeroportuale italiano, che non presenta nemmeno uno scalo nella classifica dei primi 30 hub mondiali per quantità di merci transitata. Si osserva inoltre che, a livello nazionale, il volume di beni aviotrasportati interessa principalmente i poli di Milano Malpensa (41%), Roma Fiumicino (21,9%) e Bergamo Orio al Serio (16,4%).
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4.5. La progressiva liberalizzazione del settore aereo e l’evoluzione normativa nazionale
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Nel contesto della recente riforma, si inserisce il “Patto per la Logistica”, che prevede specifiche disposizioni per la riorganizzazione del trasporto aereo.
Il Patto traccia le linee prioritarie d’intervento per la promozione del cargo aereo: definizione di un piano nazionale di sviluppo della capacità aeroportuale per le merci; semplificazione delle procedure per l’insediamento nei principali aeroporti di centri distributivi; snellimento delle pratiche di autorizzazione per la costruzione di nuovi centri logistici; coordinamento tra i soggetti pubblici presenti in aeroporto; semplificazione dei documenti di viaggio e dei controlli doganali; attivazione di collaborazioni tra i diversi aeroporti per il cargo aereo, ecc.
4.6. Le criticità del settore in funzione logistica
Secondo Confindustria il rilancio del settore aereo deve innanzitutto partire da un’attenta pianificazione delle infrastrutture aeroportuali. Ciò significa garantire un quadro normativo certo ed omogeneo, tempi adeguati di realizzazione degli investimenti, interventi di ammodernamento e potenziamento delle dotazioni già esistenti e creazione di nuovi aeroporti e infrastrutture sulla base delle esigenze espresse dal territorio (in termini di domanda del traffico merci e passeggeri).
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5. IL SISTEMA INTERPORTUALE E INTERMODALE
5.1. L’importanza nell’economia italiana
Le infrastrutture dedicate al trasporto intermodale – interporti, piattaforme logistiche, centri intermodali – svolgono un ruolo rilevante per lo sviluppo economico, razionale e sostenibile, del Paese.
Il sistema interportuale nel suo complesso, rappresenta, infatti, un insieme di strutture che hanno la capacità di catalizzare e facilitare i traffici, sia in entrata che in uscita, aumentando così le opportunità per le imprese.
Ma la merce non viene semplicemente movimentata: nell’interporto si concentrano una serie di attività logistiche che, inserendosi fra le funzioni di produzione e di commercializzazione ed integrandole, le conferiscono valore aggiunto.
La localizzazione della struttura, la sua capacità di servizio rispetto alle diverse modalità di trasporto e la sua connessione alla rete di altre infrastrutture logistiche presenti sul territorio e coordinate fra loro costituiscono, insieme alle funzioni organizzative e gestionali, le variabili da cui dipende l’efficienza di un interporto e la sua capacità di generare ricchezza, all’interno del territorio d’ubicazione e per il Paese.
Una valutazione del contributo apportato all’economia italiana dagli interporti nel complesso, può essere operata in rapporto al risparmio nei costi interni ed esterni del trasporto.
Numerosi fattori sono alla base della variabilità del risparmio ottenuto dal caricatore che si serve di strutture logistiche e di trasporto situate negli interporti.
Operando una semplificazione non distante dalla realtà, si può osservare che il caricatore (o il destinatario della merce) potrà ottenere un vantaggio derivante dalla diminuzione dei costi di trasporto ad esso addebitati, poiché si riducono i viaggi a vuoto, si minimizzano le percorrenze del trasporto intermedio o di scambio modale, aumenta la possibilità di scelta fra più modalità di trasporto sulla lunga distanza.
Il crescente ruolo delle infrastrutture interportuali trova peraltro conferma nella sostenuta evoluzione del trasporto intermodale, che nell’ultimo decennio del secolo ha registrato:
• un aumento, in termini di tonnellate di merci trasportate, del traffico terrestre combinato (ferro-strada) del 113,8% in complesso, a tassi medi annui del 7,9%;
• un incremento dell’incidenza sul totale traffico ferroviario del traffico combinato terrestre che, sempre in volume, è passato dal 26,8% del 1990 al 38,2% del 2000 e al 40,3% del 2004;
• un aumento significativo della movimentazione di merci containerizzate nei porti nazionali passata da 15,5 mln/t del 1990 a 68,8 mln/t del 2001 (+ 342,3% in complesso, con un tasso medio annuo del 14,5%).
5.2. L’assetto infrastrutturale
Le principali infrastrutture del trasporto intermodale sono rappresentate dagli interporti e dai centri intermodali.
Gli interporti sono definiti come “un complesso organico di strutture e servizi integrati e finalizzati allo scambio di merci tra le diverse modalità di trasporto, comunque comprendente uno scalo ferroviario idoneo a formare o ricevere treni completi e in collegamento con porti, aeroporti e viabilità di grande comunicazione” (art.1, comma 1, della legge n. 4 agosto 1990, n. 240);
I centri intermodali (o terminal intermodali) sono piattaforme in cui avviene il passaggio modale gomma-rotaia attraverso l’utilizzo di unità di carico standard (casse mobili, container, semirimorchi). Tali aree sono dotate di piazzali per la movimentazione e lo stoccaggio di tali unità di carico e di binari per il loro carico e scarico dai treni. Un interporto, per essere qualificato come tale, deve avere al suo interno un centro/terminal intermodale, in quanto è il luogo in cui si attua concretamente l’intermodalità. In Italia, oltre ai terminal intermodali all’interno degli interporti, esistono svariati casi di terminal ubicati nel territorio indipendentemente dagli interporti stessi. Nell’area milanese, ad esempio, dove non esistono interporti, le aziende del settore hanno dovuto “compensare” questa carenza organizzandosi autonomamente. In altri casi invece, proprio per la mancanza di una “regia” normativa e di sistema, la proliferazione di iniziative estemporanee rischia a volte di compromettere l’efficacia e l’utilità di investimenti pubblici in aree interportuali.
Il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica del 2001, attraverso la definizione del Sistema Nazionale Integrato dei Trasporti (SNIT), ha individuato le strutture intermodali che, oltre ai porti e agli aeroporti, svolgono un ruolo rilevante per il trasporto merci nazionale ed internazionale, selezionandole in base allo stato di funzionalità, dell’avanzamento del processo di realizzazione, della situazione progettuale.
Dello SNIT fanno parte 12 interporti, come definiti dalla Legge 240/90, già in attività o in via di realizzazione ai quali si sono successivamente aggiunti altri interporti a valenza nazionale che sono rientrati, ad esempio, nel programma di opere strategiche della legge obiettivo.
Complessivamente, la rete interportuale attuale si articola in 26 interporti, considerando sia quelli in attività che in via di realizzazione.
Per quanto riguarda, invece, i centri intermodali, l’ISTAT ne ha rilevati, nel 2002, ben 95, di cui:
• 38 sono cosiddetti “centri F.S.”, a prevalente vocazione ferroviaria, benché dotati anche di strutture sia per la gestione del traffico combinato che per la movimentazione di container;
• 35 sono centri container, a vocazione marittima;
• 22 sono centri polivalenti, prevalentemente di frontiera per la gestione del traffico intermodale internazionale.
Per il 65% tali infrastrutture sono ubicate nelle regioni del Nord, una percentuale che sale all’85% se si considera la distribuzione territoriale delle superfici dei diversi centri intermodali: al Nord, dunque, c’e una rilevante concentrazione non soltanto del numero dei centri intermodali quanto della disponibilità di aree utilizzate e, in ultima analisi, nelle regioni settentrionali la dimensione media dei centri – pari a 121 mila mq circa – è di gran lunga superiore a quella rilevata al Centro – 47 mila mq. – ed al Sud – 91 mila mq.
La disomogeneità della localizzazione dei centri intermodali sul territorio nazionale, se è pertanto evidente dal lato quantitativo, lo è, a maggior misura, dal lato del potenziale qualitativo del servizio.
5.3. Il quadro normativo
Atteso che un moderno sistema dei trasporti si fonda, per ragioni economiche, ecologiche e strategiche su una equilibrata ripartizione tra le varie modalità di trasporto, la realtà italiana, caratterizzata da carenze nei servizi ferroviari e dalla presenza di un autotrasporto estremamente polverizzato, non assicura quella necessaria affidabilità di sistema che è indispensabile per un'economia moderna.
Fin dal 1986, il Piano Generale dei Trasporti individuava come rimedio necessario a tale situazione la ricerca di un riequilibrio tra la strada e la rotaia, attraverso un deciso sviluppo del trasporto ferroviario, mediante il potenziamento del trasporto intermodale e delle infrastrutture ad esso connesse.
Le indicazioni del PGT e del suo successivo aggiornamento sono state recepite dalla legge 4 agosto 1990, n. 240, recante “Interventi dello Stato per la realizzazione di interporti finalizzati al trasporto merci e in favore dell’intermodalità”, che fa riferimento alle seguenti due diverse categorie di interporti:
Interporti di 1°livello
Orbassano, Rivalta Scrivia, Lacchiarella, Verona, Padova, Bologna, Nola-Marcianise, Parma Fontevivo e Livorno Guasticce.
Interporti di 2°livello
Novara Boschetto, Bergamo, Cervignano, Ravenna, Prato Gonfienti, Jesi, Orte, Civitavecchia, Frosinone, Termoli, Salerno, Vairano Caianello, Tito, Bari-Lamasinata, area Jonico-Salentina, Area Calabrese, Termini Imerese, Catania Bicocca, Cagliari.
La legge n. 240/90, oltre a definire l’interporto come una struttura comunque dotata di scalo ferroviario, prevedeva la predisposizione di un piano quinquennale degli interporti, approvato con delibera CIPET nel marzo del 1992, e l’affidamento in concessione ad enti pubblici e a società per azioni, anche riuniti in consorzio, della realizzazione e dell’esercizio delle relative infrastrutture.
Successive modifiche, introdotte dalla legge 30 maggio 1995 n. 204, hanno eliminato la distinzione tra gli interporti di primo e secondo livello, introducendo la categoria degli interporti di rilevanza nazionale, e soppresso la disposizione relativa all’affidamento in concessione a soggetti pubblici e preferenzialmente alle Ferrovie dello Stato e a società concessionarie di infrastrutture pubbliche di trasporto.
Al fine di ampliare il quadro degli interventi in tema di intermodalità sono poi intervenute le leggi 8 agosto 1995, n. 341, 20 dicembre 1996 n. 641 e 23 maggio 1997, n. 135 (che hanno reso disponibili cospicue risorse per la realizzazione di iniziative dirette a favorire lo sviluppo socio-economico delle aree depresse nel territorio nazionale) nonché la legge 23 dicembre 1997, n. 454 che all’art. 9, nell’autorizzare il Ministro dei trasporti a finanziare altre infrastrutture interportuali, ha indicato priorità e criteri selettivi nell’utilizzazione delle risorse.
Dall’analisi delle disposizioni normative che si sono succedute nell’ultimo quinquennio, emerge la tendenza a privilegiare modalità di trasporto più sostenibili rispetto a quella stradale, che comunque detiene il primato: il rilancio del trasporto strada-rotaia, di quello di cabotaggio, attraverso l’attuazione dei progetti delle Autostrade del Mare e la migliore utilizzazione delle vie fluviali sono un segnale di un’inversione di tendenza del trasporto merci rispetto al passato, inversione al momento ancora non realizzata.
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Le recenti indicazioni normative sono, quindi, chiaramente orientate a valorizzare il ruolo privato in questo settore particolarmente significativo per la logistica. Diviene quindi essenziale avviare un’azione coordinata, in grado di valorizzare quanto finora realizzato in ambito pubblico, coinvolgendo le potenziali partnership private nella realizzazione delle infrastrutture e nella gestione, secondo le regole di una efficiente e rigorosa apertura al mercato.
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[1] Nella situazione “senza manipolazione” dei container (sostanzialmente il solo transhipment attualmente praticato), il fatturato stimato (utilizzando i dati del 2003 sul traffico nazionale container) ammonterebbe a 2,7 miliardi di euro, con un utile di 200 milioni ed entrate fiscali per un miliardo, e un occupazione pari a 44,5 migliaia di unità; solo il 15% di manipolazione dei container potrebbe comportare una crescita del fatturato a 5,3 miliardi di euro, a 400 milioni dell’utile e a 2,2 miliardi delle entrate fiscali, con un’occupazione di 94 migliaia di unità. Applicando le attuali quote di traffico container nel Mezzogiorno (senza considerare la maggiore dinamicità rispetto ai porti del Centro-Nord) a queste stime, ne deriverebbe la possibilità di localizzare in quest’area il 55-60% dell’impatto finanziario indotto dalla lavorazione dei container.
[2] Secondo gli ultimi dati del 2004, la crescita del traffico container di Gioia Tauro è stata del 3,3% sull’anno precedente (comunque circa 100.000 TEU in più); Taranto è cresciuta del 16% e Cagliari del 70% (la prima di 100.000 TEU e la seconda di 200.000). Ma Algeciras (Spagna) ha registrato una crescita del traffico container di più di 400.000 TEU, avvicinandosi ulteriormente a Gioia Tauro, con quasi 3 milioni di TEU.