Ecco chi paga il Ponte
I privati, dice Berlusconi. Bugia: i soldi li metterà Fintecna. Così i ricavi delle privatizzazioni, fatte per salvare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un'opera che indebiterà lo Stato. Per farla iniziare hanno anche truccato i conti. Ma questa volta si farà: Berlusconi vuole la prima pietra alla vigilia delle elezioni. I lavori, però, saranno mai terminati? Ambientalisti e imprenditori uniti contro la cattedrale nel deserto. Intanto la 'Ndrangheta è già all'opera
di Domenico Marcello da Diario del 26/9/03
Gli articoli sul ponte dello Stretto di Messina sono un genere giornalistico. I cronisti fingono di credere alle notizie che scrivono su un progetto di cui si parla da oltre trent’anni e che, a quanto pare, non si realizzerà mai per mancanza di soldi. Perciò è giusto incominciare questa inchiesta dalla grande novità: a quanto pare, stavolta si farà. Non importa che nessuno ne senta la mancanza. Non importa che il progetto finanziario sia basato su dati falsi e che l’impatto ambientale sia colossale persino per una zona abituata a sismi e maremoti. Non importa che gli industriali siano contro e, in anteprima mondiale, alleati nella battaglia con gli ambientalisti. Non importa che le stesse imprese edili vedano con preoccupazione un appalto localizzato nel presidio dell’associazione criminale meglio organizzata del mondo.
Il
ponte parte perché così vuole l’Uomo Solo al Comando. Silvio Berlusconi ha
firmato la delibera il primo di agosto e vuole posare la prima pietra nel
maggio 2005. Secondo una strategia sperimentata, il presidente del Consiglio
lascia trasparire qualche dubbio negli incontri più riservati, quelli con il
governatore siciliano Udc Totò Cuffaro, con il presidente calabrese Giuseppe
Chiaravalloti o con il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, tutti pontisti in
via di raffreddamento. Ma la decisone è presa.
Berlusconi
ha messo in conto anche qualche mese di ritardo per i ricorsi amministrativi
già annunciati. L’importante è arrivare alle politiche del 2006 con i lavori
avviati. Se poi al gennaio del 2012 lo stretto di Messina sarà davvero ornato
del ponte autoferroviario più lungo del mondo, è un altro paio di maniche. Si
sa che le grandi infrastrutture in Italia, e soprattutto al Sud, partono, poi
rallentano, infine, si fermano quando i soldi dello Stato finiscono oppure
quando arriva la polizia giudiziaria e sequestra i cantieri, come è accaduto
alla fine del 2002 con la Salerno-Reggio Calabria. Politicamente, del resto,
non è affatto necessario che il ponte entri in funzione e comunque il 2012 è un
orizzonte lontano. L’importante è partire con spirito garibaldino. E, certo,
con i soldi.
I
soldi, ha detto Berlusconi alla Fiera del Levante, non ci sono. Ma per il ponte
sì, tantissimi, sufficienti a coprire quasi l’intero costo dell’opera che,
inflazione e interessi sul debito inclusi, è stimato in 6 miliardi di euro.
Dov’è il trucco? In via Veneto a Roma.
IL TRUCCO DEL PONTE.
Una volta, oltre ai paparazzi, in via Veneto c’era l’Iri, l’istituto per la ricostruzione industriale creato da Alberto Beneduce durante il fascismo con capitali pubblici. Quando lo Stato imprenditore è passato di moda, l’Iri ha perso fascino, potere e aziende. Le imprese pubbliche sono state privatizzate e i soldi sono finiti a tappare i buchi di bilancio.
Ma non tutti i soldi. Nello scorso novembre, quando l’Iri ha chiuso i
battenti, in cassa avanzava ancora la liquidità di alcune cessioni. I tre
liquidatori dell’ente di Stato, il professor Piero Gnudi di Bologna e due
allievi dell’ex ministro prodiano Enrico Micheli, hanno preso questa somma e
l’hanno versata in Fintecna, una società controllata al 100 per cento dal
ministero dell’Economia. Sull’ultimo bilancio di Fintecna figura un attivo
patrimoniale totale di 8,2 miliardi di euro. Di questi, 5 miliardi e 400
milioni sono liquidi con appena 636 milioni di debiti. Una situazione senza
uguali fra le imprese italiane e rara anche a livello internazionale.
Con il contenuto di questa cassaforte sarà iniziato il ponte. Fintecna,
infatti, è l’azionista principale della Stretto di Messina, la società per
azioni incaricata dell’opera. I due manager chiave sono gli ex liquidatori Iri:
Maurizio Prato comanda a Fintecna, Pietro Ciucci è amministratore delegato di
Ponte sullo Stretto. Gli altri azionisti sono Rete ferroviaria italiana, cioè
le Fs, l’Anas, e le due regioni interessate, Sicilia e Calabria. Sono quattro
partner problematici, con importanti problemi di bilancio e dubbi di
opportunità politica crescente. Chiaravalloti, schiaffeggiato in pubblico per
l’audace statuto regionale, è in asse con Mario Tassone, polemico vice del
ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi e ras dell’Udc in Calabria. «Il
peggio è successo in agosto», dice Alberto Ziparo dei comitati no ponte e
coautore de Il ponte insostenibile, «quando il sindaco messinese
Buzzanca di An, un ultras del ponte, si è reso conto dell’impatto dei lavori
sulla sua città e la sua giunta ha votato una delibera molto critica».
Anche se gli enti locali si defilano, sarà Fintecna a pagare il 40 per
cento delle opere che spettano alla parte pubblica. In altre parole, i ricavi
delle privatizzazioni, eseguite per migliorare i conti dello Stato, serviranno
per finanziare un’opera che indebiterà lo Stato. Per carità, questo lo dice
Diario. La Ponte sullo Stretto sostiene invece nel suo studio di fattibilità
finanziaria che il ponte, oltre a legare Scilla e Cariddi, a realizzare un
ponte con il Maghreb e tante altre cose bellissime, farà guadagnare soldi a
palate. Negli studi previsionali, scrive Ciucci, «il valore attuale netto
economico risulta sempre positivo (i benefici superano i costi), da un minimo
di 1,3 miliardi di euro fino a un massimo di 4,7 miliardi».
E non basta. Alla fine della prima concessione (annus domini 2042) lo
Stato potrà rimettere in gara la sua parte e ricavare 12,8 miliardi, se va
bene, o 6,2 miliardi, nello scenario a crescita bassa. Com’è possibile tutto
questo? Ovvio, con il project financing.
Da cheope a Berlusconi. Il project financing è una leggenda
metropolitana applicata all’economia. Afferma che sia possibile costruire una
grande infrastruttura in partnership fra lo Stato e i privati abbattendo le
spese dello Stato e facendo guadagnare i privati con lo sfruttamento della
concessione. Pedaggi e biglietti, in sostanza. Al mondo non esiste un solo caso
di grandi dimensioni in cui questo schema abbia funzionato. Come ai tempi di
Cheope, le infrastrutture sono un bagno di sangue. Per informazioni maggiori si
può chiedere ai piccoli azionisti o ai gestori di Eurotunnel che, peraltro, è
un’opera utile come il Canale di Suez (altra catastrofe finanziaria).
In Italia il maggiore esempio di project financing è quello
dell’alta velocità ferroviaria. L’architettura finanziaria era identica a
quella del ponte: lo Stato mette 40, i privati 60. Ecco com’è andata. I
privati, per lo più banche, hanno comprato un gettone di ingresso da 1 miliardo
di lire in Tav spa e poi si sono rifiutati di aderire ai successivi aumenti di
capitale. Alla fine, la Tav se l’è ricomprata tutta lo Stato e l’ha affidata a
Infrastrutture, una spa pubblica al 100 per cento guidata dal reggino Andrea
Monorchio.
Ai cittadini il supertreno doveva costare 16 mila miliardi di lire con
fine lavori nel 2001. Poi la cifra è un po’ salita e i tempi sono un po’ slittati:
40 mila miliardi di lire e fine lavori al 2003-2004. Oggi si parla di 52 mila
miliardi e fine lavori nel 2007-2008. Un successone. E, dato che la
meritocrazia dilaga, l’amministratore delegato della Tav ai tempi di Lorenzo
Necci, Ercole Incalza, è stato mandato da Lunardi a Bruxelles per convincere
l’Ue che il ponte andava messo fra le opere con priorità 1, le più urgenti. «Le
pressioni del governo italiano a livello europeo sono state enormi», racconta
la senatrice dei Verdi Anna Donati. «La commissaria ai Trasporti Loyola de
Palacio, peraltro, è rimasta allibita quando le ho fatto notare che il ponte è
in priorità 1, mentre la ferrovia che porta al ponte è in priorità 3».
L’inserimento del ponte nella lista delle opere europee strategiche è di
sicuro il risultato migliore della diplomazia berlusconiana. In cambio, la
Stretto di Messina potrà ricevere un finanziamento del 10 per cento. «E stanno
lavorando», aggiunge Donati, «per portare questa cifra al 20 per cento». Fino a
qui, europei o italiani, gli euro del ponte sono sempre pubblici. E i privati?
Lo schema di finanziamento recita testualmente: «L’infrastruttura non
prevede l’erogazione di contributi a fondo perduto da parte dello Stato. La
fattibilità finanziaria dell’opera sarebbe infatti assicurata da un aumento di
capitale di Stretto di Messina nell’ordine di 2,5 miliardi di euro. Il capitale
di rischio verrebbe adeguatamente remunerato e, naturalmente, recuperato
durante il periodo di gestione». In quanto al 60 per cento privato, sarà coperto
«attraverso finanziamenti tipo project finance contratti in più tranche sul
mercato intrernazionale dei capitali garantiti unicamente dai flussi di cassa
attesi per il progetto. In tale ambito è inoltre certamente auspicabile il
coinvolgimento nell’iniziativa di Infrastruttture spa, considerato il suo
elevato rating e la possibilità di concedere finanziamenti per durate più
lunghe rispetto a quelle normalmente praticate dal sistema creditizio».
Traduzione. Lo Stato, travestito da società per azioni, mette il 40 per
cento. Il resto lo chiediamo alle banche italiane ed estere, come ai tempi
della Tav. In caso le banche abbiano dubbi sul fatto di recuperare
«naturalmente» l’investimento con i pedaggi, lo Stato, travestito da un’altra
spa (la Infrastrutture dell’ex ragioniere generale Monorchio), offrirà alle
banche una garanzia solida: se stesso.
PREVISIONI FALSE.
La diffidenza insultante degli istituti di credito si fonda sull’analisi dei pochissimi dati messi a disposizione dalla Stretto di Messina. Le due cifre principali, quelle che fanno pensare al ponte come a una macchina da soldi, sono le previsioni di crescita del prodotto interno lordo meridionale e le previsioni sui flussi di traffico. Le previsioni, per definizione, non possono essere false. Ma le proiezioni sul pil sono, come minimo, ottimistiche. Il documento propone due modelli di crescita. Nell’ipotesi più carina il pil al Sud aumenterà del 3,8 per cento fino al 2012, quando il ponte dovrebbe essere completato. Nell’ipotesi prudenziale il pil salirà dell’1,8 per cento.
Ottimismo o mistificazione? Ecco i dati reali. Secondo l’Istat, nel 2002
il Sud è cresciuto dello 0,7 per cento. Sono i livelli più alti degli ultimi
dieci anni contro un andamento recente intorno allo 0,2-0,3 per cento. Anche i
flussi di traffico si stanno contraendo, soprattutto grazie all’aumento del
cabotaggio tanto caro al commissario de Palacio, perché toglie i trasporti
pesanti dalle strade. Ma il porto di Gioia Tauro non è l’unico concorrente del
ponte. Ci sono i concessionari dei traghetti di Caronte e Tourist ferry boat,
rispettivamente la famiglia Matacena e la famiglia Mondello.
Già adesso i loro prezzi (16 euro andata e ritorno) sono inferiori a
quelli previsti per il passaggio di un’auto sul ponte (10 euro solo andata) e
possono scendere ancora. Nel canale della Manica i gestori di trasporti via
mare stanno facendo affari d’oro togliendo clienti all’Eurotunnel. Per evitare
che sul ponte, a parte i dieci giorni critici di agosto, ci vadano solo i
gabbiani, la soluzione proposta dai pontisti è di limitare le concessioni
attuali e togliere di mezzo il ferribotte.
Per niente facile. Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegare al commissario
europeo per la concorrenza come mai un imprenditore statale sbatte fuori
mercato imprenditori privati utilizzando una clava da 5,4 miliardi di euro
pubblici. E visto che il liberismo è diventato di sinistra, Elio Matacena,
fratello di quell’Amedeo scomparso in estate che sosteneva i boia chi molla
nonché zio del forzista dissidente Amedeo junior, si è messo ad appoggiare la
lotta e i ricorsi degli ambientalisti. Accanto a Matacena, del resto, si sono
schierati compatti tutti gli industriali calabresi che chiedono strade e
ferrovie funzionanti invece della classica cattedrale nel deserto.
GRANDE OPERA, GRANDE RISCHIO.
Eppure almeno i costruttori dovrebbero essere contenti. Non si sputa su 6 miliardi di commesse. Ma anche qui la faccenda è più complicata di quanto sembra. Intanto, bisogna fare una gara. Il decreto legislativo del 24 aprile 2003 ha dovuto accogliere le obiezioni del commissario Mario Monti. La strada più probabile, caldeggiata da Giuseppe Zamberletti ex ministro dc di lunghissimo corso e presidente della Stretto di Messina, prevede la gara per la scelta di un general contractor e una gara per la gestione dei raccordi (svincoli, nodi ferroviari eccetera). Lo suggeriscono anche i consulenti di PricewaterhouseCoopers Consulting per «non concentrare i rischi in capo al concessionario».
I rischi, appunto. Il ponte sullo Stretto che dovrebbe fare guadagnare
allo Stato 17,5 miliardi di euro da qui al 2042 comporta un rischio di impresa
elevatissimo. Chi parteciperà alla gara dovrà impegnarsi, sulla base di un
progetto molto vago, a completare l’opera a determinate condizioni. Che succederà
se i tempi e i costi risulteranno superiori?
Lo spiegano i due nuovi commi dell’articolo 4 del decreto. «All’entrata
in esercizio del collegamento sullo Stretto sarà accertato il costo aggiornato
dei lavori e stabilito l’eventuale contributoi integrativo da corrispondere
alla società concessionaria per gli aumenti di costo derivanti da forza
maggiore, sorpresa geologica o comunque derivanti da richieste del concedente.
Ai relativi oneri si farà fronte con le risorse stanziate annualmente per le
infrastrutture strategiche» (comma elle).
In altre parole, se l’opera costerà più di 6 miliardi, la differenza ce
la mette lo Stato. Ma questa ventata di ottimismo per le imprese è stroncata
dal comma u. «Negli atti contrattuali di affidamento dell’opera a terzi la
Stretto di Messina ha facoltà di recedere dal contratto ove il progetto
comporti sostanziali modifiche alle opere ovvero aumenti di prezzo». Questo
vuol dire che se i subappalti fanno impazzire i costi, lo Stato non paga e la
patata bollente se la tiene il concessionario. La differenza è sostanziale. Il general
contractor deve subappaltare. Quindi trasferirà il rischio sulle piccole
imprese. Più d’una è fallita nei lavori dell’alta velocità. Altre, come quelle
che lavoravano sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, sono in mano alla
criminalità e si sono organizzate risparmiando sui materiali, dato che troppo
cemento fa male.
ALLARME MAFIA.
Il governo ha pensato anche all’allarme ’Ndrangheta. Nel sito web della Stretto di Messina si danno riferimenti precisi all’impegno dell’esecutivo e del ministro Lunardi (quello che due anni fa diceva che con mafia e camorra bisogna convivere). Ecco il catalogo.
Nell’aprile 2002 Lunardi istituisce un «Servizio di alta sorveglianza»
sugli appalti al Sud. Nell’ottobre 2002 Giuseppe Pisanu, ministro dell’Interno,
crea un gruppo di lavoro per monitorare i lavori sul ponte. Nell’aprile 2003
Piero Luigi Vigna, capo della Direzione nazionale antimafia, crea un pool
investigativo. A fine maggio, Gianni De Gennaro, capo della polizia, istituisce
un Comitato di coordinamento per l’Alta sorveglianza delle Grandi opere. Il 17
luglio Lunardi e la Guardia di finanza firmano un protocollo di intesa contro
le infiltrazioni della criminalità negli appalti pubblici.
A dispetto di tutte queste iniziative, l’8 luglio il Sisde, servizio
segreto del ministero dell’Interno, scrive nel suo rapporto semestrale che «la
’Ndrangheta si concentra sempre più sugli ingenti finanziamenti collegati alle
iniziative di rilancio della Calabria e sulle risorse per la realizzazione
delle centrali elettriche, ma soprattutto sulla costruzione del ponte di
Messina». Mentre Cosa nostra, secondo il Sisde, è in parte bloccata dallo
strappo fra l’ala stragista e l’ala «del basso profilo», le ’ndrine calabresi vanno
d’amore e d’accordo. Quando ci sono in ballo i soldi per un porticciolo o
un’altra struttura da poco, si contano i morti per strada. Con il ponte ce n’è
davvero per tutti.