Sette o otto anni fa un
insegnante di Bussoleno, di nome Boris Bellone, scrisse a Noam Chomsky per
raccontargli, con qualche documento, delle iniziative degli abitanti di questa
valle contro il progetto dell’alta velocità ferroviaria.
Con mia sorpresa, il celebre
linguista del Massachusset Institute of Technology – più noto ormai per la sua
attività di denuncia delle atrocità del potere che per i suoi studi sulla
struttura del linguaggio – rispose, e la sua risposta fu pubblicata su un
giornale locale, Dialogo in valle, a cui Bellone era abbonato. Riporto
la breve lettera di Chomsky:
Caro
B. B.
Grazie
per avermi mandato le informazioni
riguardo alle esemplari e coraggiose azioni della gente della valle di
Susa. Tali iniziative popolari, in molte parti del mondo, stanno diventando una
forza potente, che offre l’unica reale speranza di bloccare, e
capovolgere, la progressiva e
minacciosa spinta ad un potere centralizzato e ad un’autorità che risiede in
remote istituzioni che non rendono conto di quello che fanno. E’ una battaglia di
grande significato, che sicuramente foggerà il corso della storia.
Nel
presentare la lettera sul giornale, la traduttrice fu colta da una crisi di
pudore; aggiunse come commento:
Forse il Professor Chomsky
esagera un po’; gli siamo comunque grati per le belle parole. Un simile
apprezzamento da parte di uno come lui ci incoraggia e ci inorgoglisce. Ogni
tanto fa bene.
Io
ero tra quelli che pensavano avesse, per generosità di cuore, esagerato.
La mattina dell’otto
dicembre di un anno fa’, mentre aspettavo a Venaus di fronte alla rete della
Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna che arrivassero gli altri
trentamila, ho cominciato a chiedermi se il vecchio professore non avesse visto,
da lontano, più lucidamente di noi.
E’ vero, la lettera di
Chomsky riprende un tema caro a tutti quelli che non credono al partito di
acciaio, né alla sacralità del potere, una fiaba forse, che tanti hanno raccontato: nonostante le
truppe antisommossa, o i carri armati, e la padronanza tecnica degli strumenti
di violenza e di tortura, non sono i padroni del mondo a dettare il corso degli
eventi, ma gli altri, quelli che non
compaiono sui media, che costruiscono case e coltivano orti, che cuciono
vestiti, curano malati; mani pazienti e occhi acuti, e la disciplina interiore
che deriva dal lavoro, così lontana dalla sbracata rapina dei potenti. Mi è
capitato spesso, nelle mie periodiche crisi di scetticismo, di pensare che
questo pensiero costituisca l’anima nascosta, e neppure troppo nascosta, del
materialismo dialettico, una disciplina scientifica che associa a una visione
disincantata del presente un presentimento del futuro del tutto magico: dal
bruco alla farfalla, appunto.
Eppure, è così bella la fiaba,
e io faccio fatica a difendermene. Tanto più che l’otto dicembre avevo accanto
a me una giovane signora – il ritratto della modestia decorosa, un piccolo
colletto di pelliccia su un tailleur di panno scuro – che, aperta la borsetta e
tiratene fuori un paio di forbici, nell’attesa si era messa a tagliare la rete
della CMC con assoluta tranquillità.
- Ma, signora, si è portata
le forbici?- qualcuno le ha chiesto, stupito della preveggenza. Perché no? – ha
risposto – Io faccio la sarta.
E’ stato allora che mi sono
convinto che stavamo facendo la cosa
giusta, sebbene pensassi che probabilmente ci avrebbero sparato addosso. Non mi
pesavano più le ore della mia vita sprecate in commissioni tecniche a far finta
di discutere, con falsi esperti di origine politica, di banalità
propagandistiche, o di argomenti tecnici a cui i miei interlocutori non erano
minimamente interessati, ammesso che fossero in grado di capirli: ne era valsa
la pena.
La lettera di Chomsky
racchiude in un abbraccio tante vicende diverse, e situazioni lontane, che hanno alcuni lineamenti comuni. Persone
disarmate, e in qualche misura prepolitiche, si mobilitano in difesa di risorse
fondamentali: la terra, l’acqua, l’energia. Rifiutano di affidare ciecamente le
loro ragioni alla politica professionale, di cui diffidano; rivendicano il
diritto di influire sul destino del loro territorio, opponendosi a un potere
lontano e centralizzato.
Anche le dimensioni
economiche del problema sono simili a quelle delle tante vicende che
sicuramente sono passate per la mente di Chomsky. Il progetto dell’alta
velocità italiana è una truffa che vale complessivamente 100 miliardi di euro,
e per cifre simili si scatenano guerre, si porta la democrazia a destra e a
manca, si bruciano vivi decine o centinaia di migliaia di civili disarmati.
L’unica vera differenza
consiste nel fatto che a Venaus non hanno sparato: a noi è andata meglio che ai
braccianti di Avola del 1968. E’ un punto importante; conviene discuterne.
Non credo che siamo stati
trattati più umanamente dei braccianti
del ’68 perché ci venivano riconosciute delle buone ragioni; quelli di Avola ne
avevano altrettante. Né per il buon cuore di Pisanu. Secondo me non hanno
sparato perché non sapevano bene a chi
avrebbero sparato. Sui campi ripresi alla CMC ho incontrato le persone
più disparate, anche quelle che non avrei mai immaginato di incontrare. Tirando
nel mucchio avrebbero rischiato di colpire un paio di sindaci, un prete e due chierichetti, qualche
professore o medico, un signore che pochi giorni prima aveva partecipato a una
cerimonia insieme ad alcuni capi di Stato, oltre a buon numero di donne e
bambini. Marco Revelli, con sovrana indifferenza verso il fumo dei lacrimogeni,
discettava di democrazia partecipata con gli inviati di non so quale
televisione. Dopo i tanti sforzi per sovrapporre, con tecniche da
fotomontaggio, al movimento NO TAV l’immagine di una organizzazione terrorista
di fantasia, i celebri anarco
insurrezionalisti – mai visto uno –, come diavolo facevano a raccontare di aver
tirato a freddo addosso a uno dei più noti intellettuali italiani?
Non sono lusingato nel
raccontare che avevamo con noi persone importanti; tra i tanti peccati che mi
tentano, lo snobismo non arriva a scaldarmi il cuore. Quello che voglio dire, è
che l’otto dicembre abbiamo vinto un
confronto di volontà e di convinzione, che ha richiesto del coraggio, ma non
una battaglia militare. Abbiamo vinto
perché abbiamo mostrato una partecipazione corale, una volontà di tutti, la
presenza di un popolo intero, in tutte le sue articolazioni sociali. E’ un
grande patrimonio, quello che abbiamo raccolto; ci sono voluti anni di lavoro,
l’invenzione di un linguaggio che non ha ceduto agli slogan, eppure accessibile
a tutti, il sacrificio di tante ore. Dobbiamo stare ben attenti a non
disperderlo.
E’ venuto invece il momento di tentare una generalizzazione,
costruendo una rete di situazioni che hanno problemi simili, e di dare a queste
forma organizzativa strumenti e peso. Il Coordinamento di mutuo soccorso, che i gruppi NO TAV
della valle di Susa stanno cercando di costruire in collaborazione con altra
gente d’Italia, risponde a questa esigenza.
Non
è facile fare politica senza scivolare nella politica come mestiere. Spesso
sembra del tutto impossibile. Eppure dobbiamo farlo, è qui che si trova la
speranza, lo dice Chomsky. Non è inevitabile che qualsiasi uomo politico sia
persona superficiale e vuota; ne conosciamo alcuni che non lo sono, ma vivono
male nel loro ambiente; ricordano l’agnello di Woody Allen, che dormiva con il
lupo, ma non riusciva a chiudere occhio.
Tuttavia, e a parte i casi singoli, non si può credere che l’insieme
degli uomini di governo rappresenti compiutamente gli interessi di coloro che
vengono governati, neppure di quella parte che li ha eletti, quando le elezioni
sono previste. Questa contraddizione non è un fatto episodico e transitorio, ma
strutturale; il potere politico determina uno status, e definisce un
gruppo di diversi dagli altri. Il conflitto di interessi tra governanti
e sudditi è fondamentale per la comprensione delle dinamiche sociali, anche se
viene continuamente rimosso da un impressionante apparato di propaganda;
persino gran parte dei conflitti esterni è proiezione di questo conflitto
occultato. Un progetto di allargamento della democrazia deve tener conto di
questa dialettica; la figura del politico di professione è ineliminabile, ma
qualsiasi passo verso una democrazia effettiva spoglia questa figura del
suo ruolo.
In
questi giorni qualcuno sembra sorpreso nello scoprire come l’attuale governo si
riveli in molti aspetti uguale, e in alcuni peggiore, di quello precedente. Non
vedo che cosa vi sia da stupirsi; si tratta di un governo nato da un accordo
tra i maggiori partiti del centrosinistra, la Confindustria di Montezemolo, il
potere finanziario, le banche, e le cooperative di tutti i colori. Per quanto
riguarda l’alta velocità ferroviaria, sono tornati sul ponte di comando uomini
che sin dall’inizio erano coinvolti nell’impresa. Prodi è stato il primo
garante del progetto complessivo; Nomisma, una società da lui fondata, ha
ricevuto una decina di miliardi di vecchie lire per produrre studi sull’impatto
socio-economico dell’opera. E in quanto al caporal maggiore che, giorno dopo
altro, invia diktat ai sindaci della valle di Susa, la sua storia meriterebbe
di essere rivista con distacco. Perché Di Pietro è un eroe popolare della
vulgata mediatica, ma ha nel suo passato alcuni degli episodi più torbidi della
vicenda TAV degli anni ’90: da una telefonata in cui Pacini Battaglia, presunto
ufficiale pagatore delle imprese di costruzione – che altro poteva essere? – dichiarava all’avvocato
Lucibello di essere stato sbancato dall’attuale ministro[1],
a un fascicolo contenente notizie di reato andato perduto, perché Di Pietro
sostiene di averlo inviato alla Procura di Roma per competenza e il procuratore
a cui doveva giungere di non averlo mai ricevuto, né di aver saputo dell’invio.
Può darsi che questi elementi non fossero sufficienti per giungere a una
condanna penale. Antonio Di Pietro è
stato in effetti prosciolto, con una
sentenza del gip di Brescia Anna Di Martino; ma in politica dovrebbero esistere dei criteri di trasparenza. Sembra
incredibile che un uomo con la sua storia si trovi a capo del ministero delle
Infrastrutture; a quello dell’Interno, forse; in un Ministero per
l’alfabetizzazione, ove avrebbe portato insieme a Pacini Battaglia la sua
personale e sofferta esperienza, senza alcun bubbio; ma alle Infrastrutture,
per quale motivo?
Siamo
tutti abituati a pensare con un riflesso quasi automatico che se uno dei
protagonisti di uno scontro è cattivo, l’altro sarà buono. Quando si parla di politici di professione sarebbe più
prudente presumere che si tratti di figure di facciata, espressione di poteri e
interessi non dichiarati, spesso in lotta per uno stesso bottino. Nel campo
delle grandi opere, quelli della fazione perdente – la Calcestruzzi spa di
Gardini – sono stati spazzati via con ferocia; ma i gruppi che sono rimasti con
le mani artigliate alla ricchezza pubblica, non sono costituiti da santi.
Tornando
al Coordinamento, penso che esso possa costruire una rete di relazioni in grado
di unire gruppi diversi, di dare voce a chi si sente isolato, di mettere a
disposizione competenze e informazione pulita, così da fare argine alla
costante opera di falsificazione messa
in atto, sugli strumenti di propaganda in mano ai padroni del mondo, dal loro
personale di servizio. Il problema di come arrivare a influire sulle scelte è
di difficile soluzione; eppure è un problema sentito da un numero sempre più
grande di persone. Nella prefazione a un libro recente sull’alta velocità
ferroviaria[2], Alex
Zanotelli ha scritto:
Quello che abbiamo visto in Valle di Susa
è veramente un esempio di democrazia partecipata, ed è questo che vorrei
sottolineare con voi: un processo incredibile avvenuto attraverso un
procedimento di consultazione popolare. E’ la gente che deve rimettersi in
piedi, che deve dire no a certe logiche, ed è soltanto mettendoci tutti insieme
che troveremo la forza per cambiare un sistema che ci porta alla morte.
Dalla
Valle di Susa al Ponte – No TAV-No Ponte – tutte il resto è collegato insieme,
e la società civile, che stenta ad organizzarsi, a mettersi insieme per creare
reti, deve diventare soggetto politico e forzare i partiti per dire NO a certe
cose che i partiti e il governo hanno deciso e che non possiamo accettare a
meno che non vogliamo tutti morire. Ma vogliamo invece tutti vivere. Diamoci da
fare perché vinca la vita.
Penso
che quando sono in tanti a porsi, e con tale urgenza, un problema, i modi per
affrontarlo prima o poi si trovano. Perché sia chiaro che contro di noi milita
una organizzazione sociale di parassiti, non qualche inviolabile principio di
filosofia naturale. Sono i fautori delle grandi opere, o i teorici dello
sviluppo illimitato del p.i.l., a non
conoscere la termodinamica.
[1] Sembra che in seguito Pacini Battaglia abbia
dichiarato che intendeva dire di essere stato sbiancato per la paura. Per una descrizione
dettagliata della vicenda si può leggere il libro di Imposimato, Pisauro,
Provvisionato: Corruzione ad Alta
Velocità, KOINè Nuove Edizioni, 1999.
[2]
Laboratorio per la democrazia di Torino, Travolti dall’Alta Voracità,
Odradek 2006.