E
sorprendente vedere come le istituzioni facciano così fatica ad apprendere
dall'esperienza.
Chi osserva le vicende dell'ultimo ventennio, troverà una
serie infinita di casi in cui un'opera di «interesse generale», ma sgradevole
per i territori che devono accoglierla, è stata ostacolata o addirittura
bloccata definitivamente dalle opposizioni locali. Se vogliamo limitarci alle
vicende più recenti e più note, è sufficiente ricordare la precipitosa ritirata
del governo nazionale da Scanzano Ionico, dove il progetto di dare soluzione
definitiva alla questione dei rifiuti nucleari fu sconfitta in un paio di
settimane dalla sollevazione di un'intera regione; o la crisi dei rifiuti in
Campania dove tutte le comunità impediscono da anni e con successo la
costruzione di un inceneritore; oppure ancora gli ostacoli che l'impianto di
rigassificazione del metano sta incontrando a Brindisi, dopo che un analogo
impianto era stato rifiutato dieci anni fa dalla popolazione di Monfalcone. La
storia di Davide contro Golia continua a ripetersi.
È evidente che le comunità
locali hanno acquisito un'eccezionale capacità di difesa contro le intrusioni
sgradite nei loro territori. Non riescono sempre a mobilitarsi e non sono
sempre in grado di sbarrare la strada ai proponenti. Ma le probabilità che
si manifesti una contrapposizione gravida di conseguenze sono notevolmente
alte e un'istituzione responsabile e realista dovrebbe tenerne conto e comportarsi
di conseguenza.
Il caso della Tav in valle di Susa è da questo punto di
vista ancora più stupefacente. Qui infatti non si è verificata una sollevazione
dell'ultima ora (come spesso è avvenuto altrove), ma esiste un movimento che si
è andato formando e consolidando per quindici anni, da quando - nei primi anni
Novanta - fu proposta la linea ad Alta Velocità Torino-Lione. In tutto questo
tempo si sono tenuti nella valle migliala di incontri e di manifestazioni
pubbliche. Si è discusso, si è studiato, si sono commissionate ricerche. La
scritta «No Tav» è comparsa in ogni angolo della valle ed è diventata un
emblema, un segno diriconoscimento e di identità, attorno a cui si sono
raccolti i gruppi politici e sociali più diversi, le associazioni di ogni
natura, i parroci e gli enti locali. Le due comunità montane, quella della
Bassa Valle e quella dell'Alta Valle, hanno fatto da portavoce e da
coordinatori.
È difficile trovare un movimento che assuma caratteristiche
comunitarie altrettanto spiccate. Eppure il governo nazionale ha tentato
egualmente la prova di forza. Ha cercato di aprire il cantiere per i sondaggi e
il tunnel ausiliario di 10 km, ha mandato la polizia alle pendici del
Rocciamelone e nei boschi di Venaus. Il movimento ha risposto con mobilitazioni
obiettivamente grandiose prima nella valle e poi a Torino. E alla fine si è
giunti a un prevedibile stallo: tre mesi di tregua per dar modo di compiere la
valutazione di impatto ambientale del tunnel di Venaus e lasciar svolgere le
Olimpiadi di Torino 2006 nella stessa valle di Susa. E la promessa di aprire un
tavolo di confronto. Poi si vedrà.
Particolare contro
generale
La vicenda della valle di
Susa si presenta, prima di tutto, come un caso di resistenza locale contro
un progetto di interesse generale. Siccome si tratta di una sindrome ricorrente,
conviene capir bene quali sono i suoi tratti specifici.
I tradizionali meccanismi della democrazia fanno fatica a
trattare questi tipi di conflitti. Esistono strumenti giuridici per la tutela
delle minoranze linguistiche, religiose o politiche, ma non è chiaro che tipo
di protezione debba essere offerta alle comunità locali contro progetti che
servono alla generalità dei cittadini. Il principio di maggioranza, che è
l'estremo rimedio per dirimere i conflitti politici, non può essere
convenientemente adoperato in questi casi. E infatti il problema è: maggioranza
di chi? deve prevalere la maggioranza dei cittadini che otterranno vantaggi
dall'impianto? O la maggioranza dei cittadini che ne subiranno localmente
l'impatto? È evidente che nel primo caso la risposta sarà favorevole e nel
secondo contraria. Per questa via non se ne esce. Il conflitto territoriale,
inoltre, non si conforma alla consueta distinzione tra destra e sinistra ed è
quindi difficilmente gestibile dalla politica che invece è strutturata entro
questo schema binario: nel caso della Tav, tutte le istituzioni sovralocali (il
governo nazionale, la regione, il comune di Torino) sono a favore, tutte le
istituzioni locali sono contro. A prescindere dal colore politico.
D'altra parte le due sfere,
quella «generale» dei beneficiari e quella «particolare» dei potenziali danneggiati,
sono chiaramente asimmetriche. I primi sono numerosi ma dispersi e i benefici
che essi possono ricevere individualmente (ad esempio, da un inceneritore
o da una linea ad Alta Velocità) sono modesti. I secondi sono viceversa concentrati
sul territorio, ritengono di essere costretti a pagare un costo esorbitante
e sono quindi in grado di mobilitarsi con relativa facilità (come ormai l'esperienza
dovrebbe averci insegnato).
L'impasse dei meccanismi
democratici deriva dal fatto che la democrazia si è innestata sul corpo dello
stato nazionale e ne ha ereditato i valori di fondo. Fino a qualche decennio
fa, in caso di conflitto tra interessi generali e interessi locali si dava
per scontato che i primi dovessero prevalere sui secondi senza tanto discutere.
La democrazia è nata con un forte pregiudizio antilocale. Hanno spinto in
questa direzione sia le teorie giuspubblicistiche sulla supremazia dello stato,
sia le vocazioni egualitarie dei grandi partiti del movimento operaio che
hanno sempre combattuto quelle che chiamavano «le resistenze corporative».
A cui si è aggiunta una certa dose di arroganza del potere, che con il tramonto
della Prima Repubblica è perfino aumentata.
Oggi le sollevazioni dei
territori che vengono chiamati a subire una servitù sono diventate sufficientemente
forti da porre con nettezza un problema che nel passato era stato liquidato
troppo sbrigativamente: ossia che è necessario trovare un equilibrio tra il
generale e il particolare e che la ricerca, sicuramente faticosa e non sempre
fruttuosa, di tale equilibrio sia un compito imprescindibile di una democrazia.
Nella cultura politica italiana questa idea non è ancora passata. Si ha viceversa
l'impressione che gli uomini di governo abbiano ancora la testa immersa nello
spirito dello stato novecentesco, esclusivo interprete dell'interesse generale.
Le proteste locali sono accolte con fastidio, come un impaccio egoistico che
non merita attenzione e da cui ci si dovrebbe liberare al più presto. E si
lanciano grida di allarme, che sono abbondantemente risuonate negli ultimi
mesi: «In Italia non si riesce a fare più niente!», «Le grandi opere sono
bloccate da anni!», «L'Italia perderà sempre più terreno rispetto agli altri
Paesi!».
Queste affermazioni non sono
del tutto vere (come mostrano i colossali cantieri dell'alta velocità che
costeggiano le autostrade tra Torino e Milano e tra Milano e Napoli), ma sono
soprattutto incredibilmente provinciali. Un libro di vent'anni fa cominciava
così: «[In questo Paese] siamo giunti a un'impasse. Le amministrazioni pubbliche
non riescono ad agire, anche quando tutti ritengono che qualcosa debba essere
fatto [...] Qualsiasi sforzo per costruire prigioni, autostrade, centrali
elettriche, case di cura per malati mentali o case popolari è osteggiato da
coloro che risiedono nei dintorni. Dal 1975 non è stato costruito in questo
Paese neanche un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi, anche
se tutti ritengono che tali impianti siano necessari per evitare il fenomeno
della discarica selvaggia». A differenza di quello che si potrebbe pensare,
il Paese di cui si parla non è l'Italia, ma gli Stati Uniti. Il problema delle
impasse create dalle opposizioni locali riguarda tutti i Paesi. Se mai in
Italia ce ne siamo accorti con qualche decennio di ritardo.
La via dialogica
II libro americano, da cui
è stata tratta la citazione, suggeriva - molto ragionevolmente - di superare
l'impasse prendendo sul serio le ragioni degli oppositori e di costruire insieme
a loro un processo dialogico e negoziale che permettesse di trovare soluzioni
accettabili per tutti e di ridurre al minimo l'imposizione. Insomma, con le
ragioni locali bisognava venire a patti.
Tutti gli stati contemporanei
si sono, a poco a poco, attrezzati per seguire questa strada. Hanno inventato
nuove procedure, hanno formato specialisti dell'interazione e della mediazione,
hanno creato appositi forum, sedi di dibattito, arene deliberative. Ovviamente
non hanno avuto sempre successo, ma talvolta sono riusciti a trovare qualche
via d'uscita o, almeno, a evitare di esacerbare la contrapposizione. Espressioni
come consensus building, stakeholder involvement, citizen's
participation, partnership ecc. ricorrono nei documenti ufficiali
di tutti i Paesi e compaiono da anni (inascoltate o incomprese) nei testi
europei. Il vero ritardo dell'Italia non risiede nella virulenza anarchica
dei suoi «campanili» (che è invece un problema comune a tutti), ma nell'incapacità
di prendere atto di questo fenomeno e di adottare approcci conseguenti. Da
noi le istituzioni continuano a comportarsi come se il problema non esistesse.
«Ci provano» e, nella maggior parte dei casi, finiscono per sbattere la testa
contro il muro.
Quando, quindici anni fa,
la Francia (e stiamo parlando della Francia giacobina e tecnocratica, patria
indiscussa de l’intérét general, trovò di fronte un'opposizione del
tutto simile e altrettanto ostinata da parte dei vignerons della valle
del Rodano contro la linea del Tgv Mediterranee, cercò almeno di trarne
una lezione. E nel 1995 fu varata una legge che imponeva di sottoporre tutte
le opere infrastrutturali di una certa importanza a un débat public
preventivo in cui fosse garantito l'ascolto di tutti i soggetti interessati
ed in cui la prima questione da discutere sarebbe stata:
«L'opera va fatta? Esistono alternative?». Questa procedura
non è esente da difetti e inconvenienti, come molti osservatori hanno messo in
evidenza, ma è comunque evidente che in Italia siamo distanti anni luce. Anzi
da noi, qualche anno dopo, di fronte al medesimo problema, è stata compiuta,
con la «legge obiettivo», la scelta diametralmente opposta: quella di troncare
sul nascere qualsiasi dibattito, conferendo pieni poteri alle autorità centrali
e tappando la bocca ai governi locali. Con i risultati che abbiamo sotto gli
occhi. Ma non sarebbe corretto attribuire troppe responsabilità al governo
Berlusconi e il suo ministro Lunardi. Il male è molto più antico. La legge
obiettivo è del 2001. li problema della Tav in valle di Susa marcisce dai primi
anni Novanta.
Chi deve decidere
L'annosa disattenzione (disprezzo?)
per le ragioni degli oppositori locali si basa su due convinzioni. La prima
è che a un piccolo territorio non può essere consentito di tenere in scacco
una nazione (o addirittura un continente). Da cui la domanda retorica, ampiamente
circolata in questi mesi: «Chi deve decidere su un'opera di interesse nazionale
o europeo?». Ma la domanda è sbagliata. I problemi che investono contemporaneamente
più livelli territoriali non possono essere trattati con un taglio netto.
Una linea ad Alta Velocità assume caratteristiche e significati diversi a
seconda della scala alla quale la si osserva. Su scala europea essa si presenta
come un corridoio capace di connettere rapidamente l'intero continente; su
scala regionale o metropolitana appare cóme un'opportunità per rafforzare
la competitivita delle rispettive aree rispetto ad altre regioni o altre città
del continente; su scala locale (in particolare per i territori che sono attraversati
ma non serviti) rappresenta un peso gravoso e ingiusto. A ogni scala si possono
vedere problemi e soluzioni, che alle altre scale non sono percepibili. I
geografi parlano, in proposito, di un approccio «transcalare», quando un medesimo
problema viene osservato contemporaneamente su scale geografiche diverse e
viene affrontato combinando i punti di vista che scaturiscono dalle diverse
osservazioni. In un contesto transcalare non esiste nessuno che possa arrogarsi
il titolo di «decisore di ultima istanza». Il processo decisionale non può
che essere costituito da un continuo andirivieni tra i livelli territoriali
che permetta, gradatamente, di tentare una conciliazione tra gli interessi
generali (ma spesso troppo astratti) dei governi di rango superiore e gli
interessi concreti (ma spesso particolaristici) dei governi di rango inferiore.
La costruzione della soluzione dovrebbe essere il frutto di meccanismi ben
oliati di governance multilivello: sia per prevenire i conflitti che tendono
a esplodere quando gli attori locali si trovano di fronte al fatto compiuto;
sia per migliorare la qualità dell'opera.
In valle di Susa questo paziente raccordo tra le scale
territoriali e tra i loro rappresentanti non c'è stato. Un vero dialogo non è
mai decollato. Certo, i contatti non sono mancati, ma sono stati sporadici e
non sistematici, non hanno coinvolto tutti gli oppositori, sono stati prevalentemente
imbrigliati entro i limiti angusti delle procedure formali, non hanno
affrontato apertamente tutte le questioni sul tappeto e soprattutto sono stati
terribilmente tardivi. E gradatamente le iniziali proteste di alcuni gruppi si
sono trasformate in una sollevazione corale dell'intera comunità. La sensazione
di non essere presi in considerazione e di non essere ascoltati è la molla più
potente per la costruzione di un'identità che contrappone «noi» a «loro».
Un esempio significativo:
all'inizio era stato previsto che la linea corresse all'aperto, nel fondovalle,
fino all'imbocco del tunnel di base. Di fronte alle proteste che montavano,
si decise di spostare la linea verso la montagna, facendola passare quasi
completamente in galleria. Fu una scelta che comportò un'enorme lievitazione
dei costi. Eppure fu presa del tutto unilateralmente. Non ci fu una vera trattativa
con le parti locali. Il nuovo progetto non fu il frutto di un accordo esplicito,
come se non si dovesse ammettere che gli attori locali potessero essere considerati
come partner alla pari. Fu risolto un problema pratico (togliere dalla vista
la linea), ma non fu risolto un problema simbolico altrettanto e forse più
importante (riconoscere gli attori locali come interlocutori a pieno titolo).
E nello stesso tempo, non si colse l'occasione per vincolare gli oppositori
a un patto.
Paure irrazionali?
I promotori delle grandi
opere sono indotti a trascurare le proteste locali per una seconda ragione:
perché sostengono che esse sono basate su paure irrazionali fomentate da agitatori
senza scrupoli. Questa obiezione contiene sempre qualche elemento di verità,
ma non coglie il punto. Le comunità che si sentono sotto tiro tendono a elaborare
una visione catastrofica della minaccia. Inalberare cartelli con la scritta
«Vogliamo vivere», come succede in valle di Susa, suona un po' sinistro perché
lascia pensare che la Tav seminerebbe morte. E non è certo uno spettacolo
piacevole vedere all'opera propagandisti che diffondono il terrore tra la
popolazione facendo balenare una sequenza spaventosa di rischi letali. E tuttavia
questi eccessi sono un modo per difendersi da un'intrusione che può alterare
in profondità il proprio stile di vita e degradare il proprio habitat. Dietro
le esagerazioni c'è una richiesta di riconoscimento della dignità delle persone
e dei luoghi. La paura non riguarda soltanto specifici rischi per la salute
e l'ambiente. È una reazione più profonda contro gli stranieri che osano irrompere
in casa propria con colate di cemento, perforazioni nelle montagne o impianti
inquietanti, in nome di una modernità che serve solo agli «altri». Capire
questa cosa semplicissima sarebbe il primo compito di qualsiasi istituzione
pubblica degna di questo nome.
Ma siamo poi sicuri che le
paure siano irrazionali e infondate? Fino a che punto? In realtà le conseguenze
di queste grandi opere sono sempre circondate da innumerevoli incertezze.
E’ difficile prevedere quali guasti potrà provocare un cantiere destinato
a durare oltre un decennio o uno scavo che si insinua per 50 chilometri nel
cuore della montagna. Nessuno può dare assicurazioni in proposito. E se le
dà, è destinato a non essere creduto. Dobbiamo renderci conto che l'incertezza
(qualcuno dice: l'incertezza radicale) tende sempre di più ad avvolgere gli
impatti delle maggiori imprese tecnologiche, soprattutto nel lungo periodo
(e nel caso della Tav il periodo è veramente lunghissimo). Per la maggior
parte dei rischi non si può pensare di raggiungere una valutazione obiettiva.
I rischi sono distribuiti in modo diseguale tra la popolazione, variano a
seconda dei contesti sociali o ambientali e sono soprattutto percepiti in
modo diverso dai vari gruppi sociali. Chi ha riflettuto seriamente su questa
questione cruciale è arrivato alla conclusione che la stima del rischio non
può essere delegata agli specialisti, ma deve essere elaborata in modo consensuale
con i soggetti interessati, attraverso un sapiente intreccio tra i saperi
scientifici e i saperi profani. È questa la via tracciata dai molteplici esperimenti
di Participatory Technology Assessment, promossi dalla stessa Unione
europea.
Nulla di tutto ciò è stato
neanche lontanamente immaginato nella vicenda della Tav in valle di Susa.
I promotori hanno ovviamente dichiarato, come sempre in questi casi, la loro
piena disponibilità a eliminare qualsiasi rischio per la salute e per l'ambiente.
Ma il problema è come trovare un accordo su quali sono i rischi e su come
possono essere affrontati. È molto probabile che su ogni singola questione
sia possibile trovare soluzioni ragionevoli o accordarsi su specifiche garanzie,
ma questo richiede un lavoro lungo e paziente che non può essere aggirato.
L'interesse generale
è proprio così generale?
Finora ho considerato le
proteste della valle di Susa come un'azione localistica di difesa del proprio
territorio. Ma questa è solo una parte della storia. Le comunità locali che
si trovano impegnate in simili battaglie tendono inevitabilmente ad allargare
il loro orizzonte, anche per sottrarsi all'accusa di egoismo e di particolarismo.
Si assiste insomma a quel salto di qualità che Jacques Lolive - studiando
le proteste della valle del Rodano contro l'alta velocità - ha definito come
«montée en généralité». Nel caso della valle di Susa la «risalita»
è consistita nell'interrogarsi se l'opera proposta corrispondesse veramente
all'interesse generale. La maggioranza del movimento non ha messo in discussione
l'assunto di base dei proponenti, ossia che sia necessario un rafforzamento
dei collegamenti ferroviari tra Italia e Francia, anche al fine di spostare
le merci dalla gomma al ferro. Ma ha esaminato la validità della soluzione
proposta ed è andato alla ricerca di soluzioni alternative. In dieci anni
di lavoro il movimento ha avuto tutto il tempo per documentarsi, studiare
e commissionare ricerche. E i risultati raggiunti sono indubbiamente rilevanti,
sia per quanto riguarda il rapporto tra i costi (enormi) e i benefici (discutibili),
sia per quanto riguarda le previsioni del traffico merci negli anni a venire,
sia infine sull'effettiva possibilità (o volontà) di trasferire i Tir sulla
strada ferrata. Infine, uno studio effettuato da docenti del Politecnico di
Torino, per conto del comitato No Tav, ha mostrato che esiste una soluzione
alternativa: l'adeguamento della linea ferroviaria esistente. Costerebbe infinitamente
meno e offrirebbe prestazioni (a loro dire) accettabili.
La stessa esistenza di queste
obiezioni, che appaiono a prima vista ben documentate e argomentate, pone
un problema di enorme rilievo: si ha l'impressione che ancora una volta in
Italia sia stata decisa un'opera gigantesca senza un vero e proprio dibattito
pubblico. E naturalmente possibile che le critiche sollevate dal movimento
No Tav siano fragili o infondate. Ma è strano che in questi anni non si sìa
svolto un confronto approfondito su questi temi. E la cosa più grave è che
tale dibattito non si è aperto nemmeno ora, in seguito alla crisi degli ultimi
mesi. Mentre gli oppositori hanno formulato le loro critiche e le loro proposte,
le istituzioni proponenti hanno risposto con slogan, sempre più vuoti, sull'Europa,
la Modernità, la Competizione, ma non si sono sentite in dovere di entrare
nel merito e di controbattere gli argomenti con argomenti.
E neppure di fornire le informazioni
essenziali. Basta un breve viaggio tra i siti delle organizzazioni proponenti.
Il sito del comitato transpadano, la principale lobby pro-Tav (www.transpadana.org),
si limita a presentare brevi affermazioni propagandistiche e riporta solo
gli articoli di giornale favorevoli. Il sito della Ltf, la società che progetta
e gestisce la tratta internazionale, ossia il tunnel di base (www.itf-sas.com),
fornisce un'informazione molto superficiale, accenna al fatto che sono stati
svolti studi ambientali, finanziari e trasportistici, ma non li mette a disposizione
del pubblico. Il sito della società Tav (www.tav.it) rinvia al sito della
Ltf, per quanto riguarda la linea Torino-Lione. E infine il sito di Italferr
(www.italferr.it), la società che sta progettando la tratta nazionale (dai
dintorni dì Torino fino al tunnel di Bussoleno), non contiene neanche un cenno
al progetto. C'è da domandarsi: è mai possibile che su un'opera di queste
dimensioni non venga fornita al pubblico nessuna informazione rilevante? Che
idea hanno della loro missione pubblica questi operatori che non si curano
di controbattere alle critiche, non aprono i loro cassetti, non si curano
di offrire un minimo di trasparenza?
E interessante notare come
in questo modo il movimento della valle di Susa finisca per ritorcere sui
suoi avversari l'accusa di irrazionalità. Chiede a gran voce l'applicazione
di strumenti tipici della scelta razionale come l'analisi costi e benefici,
chiede che siano documentate le previsioni sul traffico merci e sui rendimenti
finanziari dell'opera. C'è probabilmente, anche in questo caso, un eccesso
di fiducia nelle procedure di analisi razionale. Albert Hirschman ci ha insegnato
che quando si intraprendono grandi progetti può essere opportuno l'intervento
di una mano che nasconda almeno in parte le conseguenze future, perché altrimenti
rimarremmo perennemente bloccati. Se nel 1857 Cavour avesse calcolato attentamente
i costi e i benefici del traforo del Frejus (per quei tempi un'impresa assai
più azzardata di quella attuale), probabilmente non avrebbe autorizzato l'ingegner
Sommeìller ad avviare gli scavi. In un'opera come la Torino-Lione, destinata
a durare per qualche secolo, è inevitabile qualche elemento di scommessa.
E spiacevole vedere come la razionalità sia brandita strumentalmente da una
parte e dall'altra per mettere gli awer-sari con le spalle al muro. Sarebbe
meglio se entrambi i contendenti provassero a ragionare insieme sia sulla
fondatezza delle paure che sulla plausibilità dell'opera.
Prospettive? Per
ora, poche
Succederà? Temo di no. La
crisi è scoppiata - come sempre - troppo tardi. Il progetto è andato ormai
molto avanti, ha consumato troppe energie e troppe risorse (a un certo punto
gli ingegneri hanno preso il posto dei politici e hanno fatto la loro strada).
Ci sono poi gli impegni internazionali, soprattutto con la Francia che ha
già avviato i primi sondaggi e che potrebbe tirarsi indietro, dal momento
che è sempre apparsa più titubante dell'Italia sulla necessità della Torino-Lione.
A sua volta anche il movimento della valle dì Susa si è spinto troppo avanti
nella costruzione di una identità antagonista al progetto. Tornare indietro
è diffìcile per entrambe le parti.
Se immaginiamo che i due
contendenti siano attori razionali che valutano attentamente i costi e i benefìci
delle loro azioni è probabile che lo scontro continuerà. Entrambi sono infatti
persuasi di poter vincere la partita, senza dover pagare costi enormi. Il
movimento No Tav può sperare ragionevolmente di impedire l'apertura dei cantieri
ancora per molti anni, visti i precedenti di Scanzano Ionico e delle altre
mille vicende analoghe. Può avere dei dubbi sulla tenuta della propria mobilitazione
nel tempo, ma finora la mobilitazione è stata più una risorsa (identificante)
che un costo. E può contare su una simpatia diffusa in giro per l'Italia,
tra tutti coloro che si sentono vittime di prepotenze da parte dei poteri
forti, che temono gli effetti devastanti dei flussi globalizzati; è più facile
tifare per Davide che per Golia. II movimento sa infine che un'opera di questa
portata non può reggere a continue azioni di disturbo e che nessun cantiere
può funzionare per anni solo perché protetto da cordoni di polizia.
Dall'altra parte anche i
promotori sono persuasi di poter vincere su tutta la linea senza sottoporsi
a una (incerta e umiliante) rinegoziazione del progetto. Sanno di avere alle
spalle interessi potenti, possono mettere in campo simboli di grande prestigio
(l'Europa, il Progresso, la Velocità, la Modernizzazione) e possono contare
su un appoggio totale e bipartisan della classe politica. «La Tav sì farà»
(sottinteso così com'è stata progettata finora), hanno dichiarato con ostentata
sicurezza sia Berlusconi e Lunardi, sia la presidente Bresso e il sindaco
Chiamparino. Sono convinti che i rapporti di forza giochino nettamente a loro
favore. Pensano che, alla fine, la fionda di Davide risulterà impotente di
fronte alla mole di Golìa.
È evidente che uno dei due
contendenti si sbaglia. Ma oggi è difficile prevedere chi. Questo gioco a
somma zero potrà evolvere soltanto quando i contendenti cominceranno a contare
le loro perdite e comprenderanno di trovarsi in una situazione di interdipendenza.
Potrebbe essere di aiuto l'intervento di un attore super partes, di un deus
ex machina, che riesca a far ragionare entrambe le parti sulle condizioni
in cui si trovano e prepari il terreno per un confronto. Ma non si vede chi
potrebbe svolgere questo ruolo, dal momento che tutte le istituzioni (compresa
l'Unione europea) hanno finito per schierarsi nella contesa.
La storia della Tav in valle di Susa è un esempio
assolutamente emblematico del punto morto a cui conduce un certo modo,
arrogante e decisionista, di pensare alle grandi opere pubbliche. Se una parte,
anche minoritaria, della classe dirigente italiana riuscisse a riflettere
seriamente su questo aspetto sarebbe un enorme passo avanti. Non servirebbe
forse a sciogliere il nodo della valle di Susa, che appare in questo momento
terribilmente aggrovigliato, ma aiuterebbe almeno il Paese ad affrontare queste
scelte in modo più mansueto e paziente, e a progettare processi decisionali più
aperti all'ascolto e meno chiusi in una improbabile cittadella tecnocratica.