di Salvatore Settis da
"La Repubblica" del 18/7/11 – pag. 22
Le manifestazioni in Val di Susa
hanno provocato molti mal di pancia e qualche ripensamento, ma in compenso
hanno dato fiato all’esercito dei benpensanti.
"Benpensanti" sono quelli che non pensano, convinti come sono che qualcuno deve pur averlo fatto per loro, e perciò sposano all’istante qualsiasi banalità, purché abbia l’aria "rispettabile" e "condivisa", e sia comunque ready made, per non perder tempo e passare ad altro. In Val di Susa c’è chi vuole a ogni prezzo laTav, c‘è chi non la vuole a nessun costo, e c’è chi vuol capire meglio, chiede informazioni e garanzie, contesta dati e analisi con altri dati e altre analisi. C’è chi si chiede come mai il sito archeologico della Maddalena di Chiomonte sia recintato e danneggiato dalle ruspe, mentre intanto Arcus (una Spa "di Stato" controllata dal ministero dei Beni Culturali) ha concesso al comune di Chiomonte ben 800.000 euro per un sito che la Tav potrebbe distruggere.
Alcune decine di migliaia di
persone hanno manifestato pacificamente intorno a un’area presidiata
militarmente; pochissimi hanno ingaggiato scontri con la polizia. Il coro dei
benpensanti, al grido di "no alla violenza!" ne ha dedotto che chi
vuole la Tav ha sempre e comunque ragione. Un solo esempio, Bersani: «Non
possiamo accettare l’idea che il processo decisionale venga bloccato da frange
violente. Quello che è successo in Val di Susa è spiacevolissimo ma non si
possono fermare i cantieri».
Proviamo ad applicare lo stesso modello a un altro caso. Poniamo che si svolga a Roma una manifestazione contro i conflitti d’interesse e le bugie di Berlusconi; e che, su centomila manifestanti, venti o cinquanta rovescino una camionetta della polizia e tirino sulle vetrine qualche sanpietrino. Se ne dovrà dedurre che il conflitto d’interessi di Berlusconi è santo e giusto, l’essenza stessa della democrazia? Dovremo aspettarci dichiarazioni del tipo «Non possiamo accettare l’idea che il conflitto d’interesse venga bloccato da frange violente», con quel che segue? Le "frange violente" autorizzano a non pensare, spostano l’attenzione dal cuore del problema (il conflitto d’interesse, la Tav) al margine: la frangia, appunto, anzi la violenza. Di riflesso, si discute animatamente su quanti fossero davvero i manifestanti, su quanti davvero abbiano commesso una qualche violenza, e quale; se vi fossero davvero dei feriti, e quanti, e come. Su tutto, insomma, meno che sulle ragioni civili della protesta. Che restano identiche (se e quando ci sono) anche quando qualcuno le rappresenti in modo improprio, violento (o anche stupido e disinformato: anche questo può succedere).
Lasceremo in mano ai "benpensanti" le regole del gioco? Quanto si può alzare la voce in un corteo, che cosa si può scrivere negli striscioni, quanto ci si può avvicinare a una recinzione? Perché, invece, non riportare sulla scena le virtù civili dell’indignazione? Dobbiamo sperare solo nello sguardo profetico dei vecchi, José Saramago che pretende la parola "indignato" sulla propria pietra tombale, Stéphane Hessel che col suo grido Indignez-vous! scuote la Francia? I giovani italiani, indignati perché condannati dalla "macelleria sociale" in atto a scegliere fra disoccupazione e emigrazione, hanno diritto a un po’ di rabbia, almeno quanto gli indignados di Spagna? O la loro protesta sarà accettabile solo se edulcorata e mediata da un qualche partito? E perché i partiti non riescono (più) a farsene interpreti, e sanno solo esortare alla calma? Non sarà stata, invece, l’indignazione dei cittadini a vincere il referendum del 12 giugno?
Quel che è in ballo non è la Val di Susa, ma l’Italia. Non la Tav, ma la democrazia. Si scontrano, in questo come in altri casi, due culture: da un lato, quella di chi difende sempre e comunque i "processi decisionali", cioè gli addetti ai lavori, cioè i politici di mestiere, che non vogliono esser disturbati nelle loro manovre.
Dall’altro, la cultura dei
cittadini che non si rassegnano al ruolo di spettatori passivi, che vogliono
capire in prima persona, che reclamano il diritto di dire la propria: insomma,
la cultura delle associazioni spontanee che, ormai a migliaia, sorgono in tutta
Italia, spesso per reazione a violenze estreme contro il territorio (come le
3000 pale eoliche che si vorrebbero imporre sui 4000 chilometri quadrati del
Molise). Questa sfiducia nella politica dei politici ha un forte argomento in
una legge elettorale iniqua (sperimentata "a sinistra" dalla Regione
Toscana, e poi adottata "a destra" dal governo nazionale), che vieta
all’elettore di scegliere per nome i propri rappresentanti, e irregimenta gli
eletti al servizio di capi e partiti a cui devono tutto. Ma il movimento
spontaneo dei cittadini può essere una grande occasione per la democrazia,
innescando una più alta dimensione della politica non come mestiere ma come
diritto di cittadinanza, dignità della polis,rivendicazione di eguaglianza. Non
ripudiando i partiti, ma invitandoli a pensare, a ri-pensarsi.
La reazione difensiva dei politici
(da destra a sinistra) non sorprende. "Lasciateci lavorare", essi
dicono in sostanza: con l’implicazione perversa che i cittadini non possono e
non devono interloquire nei "processi decisionali" se non ponendo
disciplinatamente nell’urna schede predeterminate dagli apparati di partito. E
quando dai cittadini vengono proteste e proposte (non sempre ingenue), anziché
discuterle nel merito, il politico di mestiere tende a dichiarare con
sufficienza che "ci vuol ben altro". Benpensantismo e benaltrismo
sono fratelli siamesi: due modi di espropriare il cittadino dei propri diritti,
di chiudersi nella stanza dei bottoni (e dei bottini) al grido di "Non
parlate al manovratore".
Perciò le "frange violente" fanno comodo: come si è visto lo scorso dicembre, quando le proteste degli studenti contro la riforma dell’università si infransero non per mancanza di ragioni e di energie, non per incapacità di argomentare, ma perché di fronte ad alcune violenze si compattò sull’istante un solido fronte di benpensanti, che (giustamente) ripudiavano la violenza e (sbagliando) accantonavano senza discuterle le ragioni civili della protesta. Quei moti studenteschi, i primi di un qualche rilievo dopo decenni, coincisero (lo abbiamo già dimenticato?) con un momento di grande difficoltà di Berlusconi, si incrociarono con la sua campagna acquisti per conquistare il voto di fiducia svendendo la residua dignità del Parlamento. Potevano, senza le violenze e senza la retorica dell’antiviolenza che seppellisce le ragioni di chi protesta, contribuire a una caduta che non ci fu.