Giuseppe Berta
Bruno Manghi
iI Mulino n.423,
1/2006
Una Tav per partito
preso
La questione della linea ferroviaria ad Alta Velocità o capacità
che dovrebbe congiungere Torino a Lione, come segmento del cosiddetto «Corridoio
5» europeo, ha sollevato forti dilemmi intorno al valore e al significato
dei grandi progetti infrastrutturali, una delle direttrici su cui sembra da
ultimo essersi focalizzata l'attenzione del governo Berlusconi. Sono stati
molto dibattuti i problemi che spaziano dai costi ambientali delle grandi
opere al loro finanziamento, sino alla loro utilità finale ed effettiva. Temi
che si sono spesso intrecciati e confusi fra di loro nei giudizi sul senso
dell'opposizione compatta che la val di Susa ha manifestato di fronte all'avvio
dei lavori di carotaggio per la linea Torino-Lione, previsti per il novembre
2005. Nessuno di questi interrogativi può trovare risposta agevole; conviene
semmai interrogarsi intorno ai singolari percorsi che inducono il personale
politico, nazionale e locale, a prendere partito in modi che rasentano spesso
l'irresponsabilità
.
Il ritorno alle grandi
opere
Dopo un lungo periodo di stasi, ancor più che di scarse
realizzazioni, l'Italia è parsa vivere negli ultimi anni una fase di fervore
progettuale, con immensi cantieri aperti e altri annunciati come ormai alle
porte.
Il panorama delle grandi opere è vario. Si va da quelle che,
senza bisogno di grande documentazione, vengono percepite come assolutamente
necessarie e indifferibili: le varianti di valico nell'Appennino, il nodo
di Mestre, il Brennero, i collegamenti di Genova con la Pianura padana. Semmai,
si è talvolta sconcertati per la fatica e la lentezza del procedere o, per
esempio a proposito dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria, dell'inerzia
rispetto a un rifacimento che, prima ancora di ogni motivo economico, sembra
suggerito da elementari ragioni di decenza e di sicurezza.
Alle spalle abbiamo ovviamente una serie di buone realizzazioni:
anzitutto un imponente processo di miglioramento dei centri urbani, qualche
significativo ampliamento di reti metropolitane, i miracolosi riusi dei siti
portuali di Gioia Tauro e Taranto.
Viceversa, opere che apparivano del tutto necessarie, come
Malpensa 1 o il cablaggio quasi integrale di grandi città, vedono addensarsi
seri dubbi a posteriori circa la loro utilità o la qualità del prodotto, mentre
qualche perplessità continua anche a sollevare il collegamento veloce Torino-Milano.
Per non parlare dei grandi stadi eretti per «Italia '90», diventati
non di rado problemi di ardua soluzione per le comunità urbane.
Ma oggi, inevitabilmente, l'attenzione del mondo politico
e dell'opinione pubblica è calamitata dai progetti controversi: lasciando
a parte quelli di media grandezza come l'autostrada tirrenica e altri, primeggiano
il ponte sullo Stretto e il collegamento Alta capacità della val di Susa.
Opere di straordinaria dimensione per i costi e i tempi di costruzione, entrambe
sostenute con motivazioni relative allo sviluppo economico più che come interventi
pubblici classici.
Parliamo della val di Susa e non del ponte di Messina poiché
sul suo caso si è costituita una sorta di quasi unanimità del personale politico
di primo livello. Quasi unanimità in quanto la resistenza della popolazione
è in certa misura scontata e comunque limitata al fronte, pur molto importante,
dell'impatto ambientale, mentre l'opposizione delle sinistre e degli ambientalisti
radicali non fa che esaltare la compattezza della maggioranza, giacché quelle
forze, a torto o a ragione, appaiono da tempo votate a una postura di perpetuo
diniego1
Con il trascorrere delle settimane e dei mesi si sono accumulate
quotidianamente perplessità di fondo circa la sensatezza complessiva dell'opera
dal punto di vista di un'analisi costi-benefici, per i suoi ineliminabili
limiti tecnici, per le straordinarie incertezze sul traforo (già messe in
evidenza in loco dalla costruzione di una grande centrale idroelettrica),
per la sua scarsa utilità nei confronti dei territori attraversati ma poco
serviti. Perplessità, queste, tutte ampiamente documentate.
La riflessione critica non pare aver scalfito, però, l'unanimismo
dei sostenitori dell'opera. Al massimo e in ritardo, si è cominciato a parlare
di compensazioni e di dialogo insufficiente con la popolazione, aspetti che
evitano comunque il cuore del problema, mentre si continuano ad ascoltare
stanche omelie del tipo «non isoliamoci dall'Europa!», oppure «salviamo il
corridoio Lisbona-Kiev», cui manca il minimo approfondimento sul come, a quali
costi e con quali prospettive debbano essere perseguiti questi obiettivi.
Merita allora domandarsi per quali ragioni si sia potuta formare negli anni
un'opinione così stabile, che al dunque rischia di crollare come un castello
di carte mal costruito.
Una fiducia mal riposta
È certamente normale
che un esponente politico si affidi alle competenze di alcuni colleghi e tenda
a ripeterne le tesi, perché è insensato improvvisarsi specialisti quando non
lo si è. Ad esempio, nel centrosinistra si sono ascoltati con fiducia i ragionamenti
di Enrico Letta e di Pierluigi Bersani in materia di politica economica, di
Tiziano Treu sul diritto del lavoro, e così via. Purtroppo, nel caso che qui
interessa, i più esperti si sono limitati a considerazioni generali, per non
dire generiche, rispolveri di scenari assai poco verificabili, e così si è
proceduto alla buona, per opinione ripetuta e sentito dire, fino al momento
in cui la matassa si è fatta troppo aggrovigliata.
Alla fin fine, la motivazione fondamentale che viene offerta
dai politici più
Il centrosinistra, poi, non ha nei confronti dell'Europa,
neppure dopo le delusioni recenti, l'atteggiamento quantomeno ambivalente
che caratterizza invece un centrodestra che non ha mai rinunciato ad alimentare
il sospetto verso Bruxelles. Per il centrosinistra l'Europa resta un'immagine
legata ai nomi di Ciampi e di Prodi, evoca un principio di correttezza finanziaria
da rispettare, norme stringenti che in passato hanno messo al sicuro l'Italia
da derive pericolose, impedendo che fosse imboccata una china di lassismo
nei conti pubblici. A questa Europa, perciò, non si può dire di no, perché
è considerata l'incarnazione di valori pubblici di cui il nostro Paese non
può fare a meno, pena lo slittamento verso comportamenti dubbi e in una malcerta
area grigia di confine.
Di fronte al problema Tav, il centrodestra sembra aver riposto
tutte le sue remore riguardo all'eccessivo vincolismo europeo e accantonato
anche le sferzanti polemiche di Giulio Tremonti contro un'unione incapace
di far valere gli interessi economici continentali. Non si vede come mai,
infatti, se l'introduzione dell'euro è uno dei frutti perversi della recente
stagione europea, tale da scuotere le basi del sistema produttivo italiano,
la decisione, a questo punto così lontana nel tempo, di dare vita al «Corridoio
5» dovrebbe essere ispirata a una visione più salda e condivisibile delle
prospettive dello sviluppo. Difficile anche spiegarsi, dopo le tante denunce
delle colpe degli euroburocrati, il credito totale loro accordato sulla politica
dei trasporti.
Nessuno dei due schieramenti, nell'autunno del 2005, ha comunque
ricordato come sia stata sofferta la procedura che ha condotto alla decisione
di costruire la Torino-Lione. Non tanto per la freddezza esibita in molte
occasioni dalla Francia, descritta sovente come un partner alquanto riluttante,
da incalzare, quanto per i tempi infiniti che governi e strutture comunitarie
hanno impiegato per mettere a punto un'opera peraltro enfatizzata come assolutamente
necessaria. Nessuno si è domandato se i presupposti economici delle grandi
linee di comunicazione mantengano la loro validità dopo la metamorfosi dell'economia
europea, che ha visto crescere fino a giganteggiare la quota dei servizi sul
totale del prodotto lordo rispetto a quella dei beni tangibili e dei manufatti.
...
È chiaro, in altri
termini, che ogni organizzazione economica ha bisogno di poggiare sul fondamento
di ampie e articolate reti infrastnitturali, ma appunto per questo c'è da
interrogarsi su quali di esse siano meglio idonee a sostenere il modello europeo
di service economy.
Il fascino degli affari
La risposta più semplice a queste domande consiste nel chiamare
in causa la dimensione degli affari attivata dalle grandi opere. È la risposta
di chi obietta che la Tav altro non è se non un vistoso paravento dietro il
quale far transitare colossali interessi, leciti ma soprattutto illeciti2. La Tav come l'equivalente, su scala ben maggiore, dell'Enimont:
un'impresa che trova il suo significato nel giro di commesse, cointeressenze
e, soprattutto, tangenti in grado di mettere in moto.
In questo modo di presentare le cose si può scorgere la traccia
del fallimento della stagione di Tangentopoli che, con il suo cammino arbitrario
e talvolta demagogico, non ha minimamente risolto i legami critici tra la
sfera della decisione politica e quella degli interessi economici. Qualsiasi
persona di buon senso sa che questa problematica è perenne e pressoché universale
(salvo che presso alcune piccole nazioni, dotate di forte cultura pubblica).
A essere cambiate sono semmai le forme delle relazioni, essendo venuti meno
gli operatori maggiori, quelli che sapevano assicurare una regia. Così, in
entrambi gli schieramenti politici, si intravedono convergenze sparse fra
interessi di business e carriere politiche. Le opere colossali rappresentano
inevitabilmente un pascolo ambito per tali nuclei di convergenza.
Le diffidenze crescenti e anche l'ostilità verso la Tav sono
state indiscutibilmente rafforzate dalla rivelazione degli scandali legati
alle scalate bancarie. Se già in precedenza anche la stampa internazionale
aveva segnalato i conflitti d'interesse, suscitati dalla presenza su entrambi
i versanti del progettato tunnel di 60 chilometri della società Rocksoil3, è dopo la scoperta dell'intrico di connivenze che aveva
preso forma dietro le Opa sull'Antonveneta e sulla Bnl che si è molto accentuata
la preoccupazione per i potenziali risvolti illegali delle grandi opere. Specie
in un momento in cui il sistema politico si appresta a passare al vaglio di
una nuova legge elettorale che restituisce ulteriori quote di potere nelle
mani di partiti con problemi di consenso, radicamento e legittimazione. La
legge proporzionale rischia infatti di far salire di nuovo i costi della politica,
inducendo i partiti ad accaparrarsi risorse sufficienti per fronteggiare campagne
dispendiose e anche prolungate, se si considera che alle politiche di aprile
faranno seguito immediato le amministrative, ridando fiato alla voglia di
rivincite.
Tuttavia il fascino degli affari, per quanto conti molto,
non può riguardare l'universo del ceto politico, anzitutto per l'indubbia
integrità di molti, ma anche perché ovviamente la logica affaristica tende
a escludere ben più che a includere, perciò a generare reazioni di segno contrario.
Il nodo politica-affari conta di sicuro, ma non basta assolutamente a spiegare
l'unanimismo di un ceto politico, accomunato da una difesa della Tav che fa
perno sul carattere «strategico» dell'opera.
La metafora della
«strategia»
Il termine «strategia» rimanda a un rapporto di congruenza
fra i mezzi e i fini. Possiamo definire strategico un obiettivo o un'azione
rispetto a un quadro di riferimento preciso calcolando se le risorse che verranno
impiegate appaiono commisurate al risultato e se quest'ultimo eccede i mezzi
che saranno stati immobilizzati per conseguirlo. Ogni strategia, specie se
economica, contiene -com'è evidente - degli elementi di rischio, in genere
connaturati ai fattori di incertezza della cornice in cui ci si trova a operare.
Quando i margini di incertezza superano i dati sicuri su cui si fonda una
determinata azione, quest'ultima cessa di essere strategica per configurarsi
piuttosto come un azzardo, magari calcolato, ma pur sempre azzardo, dovendosi
confrontare con variabili superiori di rischio.
Insomma, se adottiamo criteri stringenti, è probabile che
dobbiamo abbandonare una parola così cara ai politici come «strategia». Perché
delineare scenari futuri può essere funzionale all'agire strategico, ma certo
esso non vi si può risolvere. Peggio ancora è ipotizzare scenari a venire
che postulano l'evoluzione di alcune variabili soltanto, mentre ne escludono
o ignorano altre. Per intenderci, se si sostiene che la Tav è strategica dal
punto di vista ambientale, perché conduce alla riduzione del traffico su gomma,
quest'affermazione non valuta adeguatamente la possibilità che, nell'arco
di vent'anni, i motori degli autoveicoli possano subire innovazioni tali da
veder ridotte in gran parte le loro emissioni nocive.
Uno degli errori che si compiono più comunemente discutendo
della Tav è di proiettare le sue conseguenze in uno scenario in cui vengono
fatte variare soltanto alcune delle condizioni, ipotizzando che le altre restino
stabili. D'altronde, chi potrebbe mai caricarsi del compito, oggi, di tratteggiare
i lineamenti dell'economia, anche solo dell'Italia nord-occidentale o, se
si vuole, transalpina, del 2020-25? Chi potrebbe scommettere sugli sbocchi
finali della trasformazione in atto?
Nel contempo, affrontare un'opera come la Tav vuol dire anche
sottrarre risorse ad altri grandi lavori, ipotecando una quota non lieve delle
risorse pubbliche in vista di un risultato alquanto differito. A meno che
non si giudichi che il valore e l'efficacia dell'opera stiano nelle risorse
ingentissime che può mobilitare, con ricadute a cascata per i soggetti che
vi possono essere coinvolti. In questo caso, la strategia è, per così dire,
rozzamente keynesiana, postulando che le opere pubbliche attivino di per se
stesse una mole di risorse capace di innescare effetti autopropulsivi nel
sistema economico. Una visione dello sviluppo che ha il difetto di appartenere
più al passato che al presente e al futuro prevedibile e che, soprattutto,
assegna all'intervento pubblico funzioni estremamente semplici, mentre consolida
una miscela di dirigismo e di statalismo che, lo si voglia o no, ha un sapore
anacronistico.
L'ideologia delle opere
II tratto comune che meglio spiega l'adesione automatica
e poco riflessiva ai progetti di grande dimensione e di lunga durata è probabilmente
di natura
Una sensazione di benessere riscalda lo sguardo e la voce
dell'uomo politico che può finalmente promettere una grande opera. Subentra
il piacere del sì dopo una lunga sequela di no o di «sì, ma...», insieme con
l'orgoglio di poter dire «Fatti e non parole!».
Dietro queste sensazioni immediate campeggia la voglia di
sentirsi dalla parte del progresso e della modernità, con un senso di riscatto
(almeno per alcune componenti della sinistra) dall'accusa serpeggiante d'essere
un ostacolo alla soluzione dei problemi.
Ma c'è forse di più: le grandi opere si protendono con la
loro forza autonoma verso un futuro che ci inquieta; occupano uno spazio che
la nostra immaginazione stenta a percorrere. La loro immagine limpida e prepotente
sembra fatta apposta per dare sollievo a dubbi e incertezze. In fondo, le
grandi opere è più importante pensarle e prometterle che realizzarle (tanto
più se si proiettano in un arco vago di tempo come quindici o vent'anni...).
Del resto, la relazione fra il costruire grandi opere e l'esercizio
del comando politico è antica quanto le civiltà storiche. Mentre la nostra
epoca può confrontarsi utilmente con periodi a noi più vicini, quando vennero
realizzati manufatti grandiosi che ancora utilizziamo.
L'ardore del positivismo e l'industrializzazione, dall'Ottocento
fino ai primi del Novecento, hanno invertito la logica delle grandi monarchie
assolute: le opere civili hanno prevalso su quelle militari (anche quando
al loro interno obbedivano a criteri militari). Le ferrovie, la navigazione
a vapore, le grandi strade, l'elettricità formavano l'ossatura di processi
economici e sociali che costituiscono ancor oggi un mondo di riferimento.
Nessuno meglio di Jules Verne ha saputo raccontare la globalizzazione del
1870 attraverso gli orari dei treni e dei piroscafi e accendere l'immaginazione
dei lettori con la descrizione di linee ferrate tali da unire l'Atlantico
al Pacifico, valicando montagne e attraversando pianure immense. La grande
ferrovia che collegò New York a San Francisco e la Transiberiana, mezzo secolo
dopo, hanno edificato la visione del progresso e l'hanno sostenuta con basi
materiali di eccezionale potenza evocativa.
Ben di rado, e per di più su scala così vasta, opere e idee
si sono incontrate al punto da essere esaltate non soltanto dalle classi dominanti,
ma altresì da quelle subordinate che le contrastavano. Non a caso, il Novecento
dei totalitarismi (ma anche della democrazia americana) doveva riempire di
opere le proprie idee portanti. Ad eccezione delle dittature iberiche, isolate
in un sogno di restaurazione gerarchica, fascismo, nazismo e comunismo si
dedicarono a impressionanti manufatti. Di parecchie opere del fascismo (costruttore
di quelle «littorine» che garantivano la puntualità dei convogli ferroviari)
è in atto la rivalutazione, ma certamente fu il regime di Stalin a voler cambiare
la superficie stessa e il funzionamento del suo immenso spazio geografico
in uno sforzo titanico di modernizzazione. Follie ambientali, uso sistematico
del lavoro schiavo a partire dal tragico e inutile canale del Mar Bianco,
costi incredibili segnarono quel percorso, ma non mancarono nemmeno elementi
di consenso, se non di vera e propria idolatria intorno a grandi progetti
cui gli «uomini di
Diversa e specifica è la vicenda della ricostruzione europea
dopo il 1945, dove le decisioni pubbliche corrisposero a una ripresa della
vita civile fortemente voluta dai singoli nei loro progetti individuali. La
ricostruzione italiana, con le sue grandi opere, occupa una posizione di rilievo:
da Fanfani col suo Piano per l'Ina-Case al potenziamento dell'Iri all'intervento
sul Mezzogiorno del primo centrosinistra, il tempo dei grandi investimenti
appare largamente condiviso, patrimonio sorretto da una visione comune, sebbene
errori e infortuni non mancassero.
Ciò che andrà in crisi dopo gli anni Sessanta sarà proprio
questo senso condiviso per le grandi opere, anche se si registrarono fenomeni
di grande risalto come la ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1976
o il raccordo veloce Milano-Roma.
L'attuale ripresa dei grandi progetti non può più contare
sui sentimenti collettivi delle stagioni passate e infatti viene motivata
con ragionamenti di impronta funzionalistica (come risolvere i problemi della
mobilità) o con argomentazioni di tipo economico (anch'esse tutt'altro che
inattaccabili), come i vantaggi per lo sviluppo e la competitività
e l'adeguamento inderogabile delle reti infrastrutturali.
Appare così singolare che, al dunque, i fautori delle opere
controverse si presentino incapaci di documentare la loro portata effettiva
e tendano a regredire verso un'ideologia piuttosto fuori tempo.
Non è improbabile che le grandi opere esercitino una supplenza
rispetto all'enorme difficoltà che scontiamo di proiettarci in un futuro ragionevole.
Le ricorrenti perorazioni sul capitale umano sono inabili a produrre politiche
in grado di evitarne lo spreco e, dopo tante promesse di crescita illimitata,
in realtà si finisce con l'inseguire affannosamente le congiunture, trasformando
il discorso economico in un bollettino nevrotico su alti e bassi quasi sempre
imprevisti. Il nobile termine di «riforma», ripetuto ossessivamente, si applica
a modeste, ancorché opportune, operazioni di aggiustamento. Si tratta di difficoltà
che non dipendono principalmente dalla qualità del personale politico, bensì
da questioni che sovrastano la politica nazionale e c'entrano con un momento
delicato della nostra convivenza, che sottopone a usura anche le matrici culturali.
Esse dovrebbero venire ammesse seriamente e senza inutili toni depressivi.
Al contrario, la ricerca del successo politico obbliga a
ostentare una capacità di presa sul futuro e qui, appunto, l'idea delle grandi
opere rappresenta una protesi preziosa per fingere che esista. Così, la conversazione
politica accentua il suo carattere futile e viene tollerata passivamente,
fino a quando le decisioni non toccano questioni ritenute vitali, generando
paure. L'onesta routine di amministratori diligenti viene apprezzata, lo spettacolo
dei contrasti politici televisivi non disturba in modo particolare, ma quando
l'ingannevole pretesa di dettare il futuro si palesa, exit e voice
si coalizzano e si condensano nei luoghi più imprevisti.
Quando le opere e le tecniche non vengono discusse in
maniera ponderata ma brandite come armi ideologiche finiscono per alimentare,
come è stato osservato, sorde resistenze che vanno dai no all'Europa a profezie
irriducibili quanto improbabili.
Reti infrastrutturali e sviluppo
Di reti che sorreggano lo sviluppo c'è senza dubbio bisogno.
Da sempre i sistemi delle infrastrutture sono una nervatura portante degli
assi di relazione che strutturano i processi di espansione. Chi argomenta
a favore della Tav si ricollega talvolta all'esempio storico di Cavour che,
trovandosi a metà dell'Ottocento alla guida di un piccolo Paese, sconfitto
in guerra da un grande impero come l'Austria-Ungheria, cercò il riscatto in
primo luogo costruendo due importanti linee ferroviarie, la prima in direzione
di Genova, il porto del regno di Sardegna, dove vennero realizzati nuovi docks,
e la seconda che puntava in direzione di Ginevra e dell'Europa settentrionale.
L'operazione, quasi spericolata dal punto di vista finanziario, giacché Cavour
si trovò a lottare con la potentissima casa Rothschild, andò a segno e il
Piemonte riuscì a imporsi come una piccola realtà d'Europa. Ma Cavour, prima
di morire, guardava già al Fréjus e pensava a nuove vie di comunicazione che
legassero ancor più l'Italia all'Europa.
Non rimane allora che seguire le orme del grande statista
torinese e ammodernare i tracciati che già aveva avuto in mente? Piuttosto
che ricalcare pedestremente il sentiero cavouriano, conviene chiedersi quale
fosse il suo progetto. Se era quello di incrementare gli spazi di mercato,
creare una cornice favorevole alla diffusione dell'imprenditorialità, migliorare
la collocazione internazionale dell'Italia (o almeno di quel pezzo dell'Italia
settentrionale che governava), forse, invece di replicarne le mosse, si tratta
di capire con quali strumenti si possano perseguire, ai nostri giorni, analoghi
assi di sviluppo. È qui che scatta la questione delle infrastrutture, del
modo in cui esse diventano funzionali a un progetto di sviluppo che ne valorizzi
appieno le potenzialità.
Se torniamo alla Tav, ci accorgiamo subito che, al di là
dei pronunciamenti sulla sua necessità, la sua partita sembra giocarsi quasi
per intero sul territorio piemontese. Sia perché sono piemontesi i suoi oppositori
principali, sia perché, allo stesso modo, il ceto politico locale che ne è
stato toccato è soltanto quello subalpino. È a Torino (oltre che a Roma, beninteso)
che ci si è pronunciati sul carattere indispensabile della Tav, al punto di
fare dell'atteggiamento di fronte all'opera una discriminante politica, per
distinguere le componenti pronte a sposarne la realizzazione rispetto a quelle
che se ne fanno oppositrici. A Milano, al contrario, l'opinione sembra genericamente
favorevole, ma senza invocare mobilitazioni né a favore né contro. Eppure,
il capoluogo lombardo dovrebbe essere un nodo significativo, se non forse
primario, della rete disegnata dalla Tav. Invece, essa suscita un'attenzione
assai blanda, al pari dello stesso completamento della linea Torino-Milano,
quasi che il sistema metropolitano annetta un rilievo contenuto all'attuazione
dell'Alta capacità ferroviaria.
A chi fa riscontrare quest'anomalia, viene fatto osservare
che Milano dispone già di un'efficace rete di connessioni allo spazio
europeo e non ha quindi bisogno di scommettere sulla Tav. L'osservazione è
fondata, ma contribuisce senz'altro a ridurre la rilevanza della Tav che,
così, vede ridimensionate le sue conseguenze rispetto all'economia dell'Italia
settentrionale. Viene da chiedersi quale sia la rete effettiva che la Tav
dovrebbe configurare, posto che il nodo di Milano appare relativamente indifferente
al suo disegno. In effetti, si possono estendere anche alla rete ferroviaria
alcune delle considerazioni metodologiche che un valente studioso recentemente
scomparso, Claudio Ciborra, ha avanzato nei riguardi delle reti telematiche
di Milano. Ciborra invitava a «diffidare delle analisi e discussioni di settore»,
per soffermarsi invece sul modo concreto in cui «si fa rete», badando
ai contenuti, alle relazioni, alle attuazioni4. Ciò porta a concentrarsi sui gradi di utilizzo delle
infrastrutture. Vi è il pericolo che chi ha di mira soprattutto la creazione
di reticoli infrastrutturali perda di vista il problema dell'utenza, cioè
della funzionalità di servizio rispetto ai circuiti di relazione che si vogliono
costituire o irrobustire.
In altri termini, ragionando dal punto di vista della realizzazione
dei sistemi infrastrutturali invece che dell'utenza cui sono rivolti, si rischia
di accrescere uno scarto fra le dotazioni e le capabilities. Lo scopo
che dovrebbe porsi oggigiorno una rete infrastrutturale è quello di trasformare
in senso dinamico centri e realtà urbane contraddistinti dalla staticità.
Certo, è di questo segno l'obiettivo di una città come Torino, penalizzata
dalla condizione di eccentricità rispetto ai maggiori assi di comunicazione,
nazionali e internazionali. Ma la Tav è davvero lo strumento meglio idoneo
a soddisfare - cioè con più efficacia e con i tempi più adatti - questo requisito?
C'è da dubitarne, specie se si carica su di essa un cumulo di attese differito
su tempi così lunghi quanto quelli ipotizzati. Quand'anche la Tav fosse la
risposta più corretta all'esigenza di migliorare la rete delle connessioni,
non si può evidentemente rimandare ogni soluzione del problema a un futuro
che dista dai quindici ai vent'anni dal nostro presente. Anche perché un simile
lasso di tempo non potrebbe che sancire uno scarto più ampio fra le premesse
e la realizzazione.
Se poi accogliamo per buona l'ipotesi che la trasformazione
della nostra economia avvenga col passaggio a forme di produzione e di servizio
destinate a incorporare un più elevato contenuto di conoscenza, in cui dunque
gli aspetti immateriali siano crescenti, perché fare di un progetto di movimentazione
fisica delle merci il fulcro del nostro progetto infrastrutturale? Se il senso
di marcia della trasformazione è dato dall'espansione delle imprese di servizio
(dalle società di consulenza agli studi legali sovranazionali, dagli istituti
di credito e finanziari alle società assicurative), che sempre più, come ha
scritto Ciborra5, «garantiscono gli scambi fra le città e in generale
il coordinamento dell'attività economica su scala globale», possiamo davvero
credere che l'infrastruttura decisiva sia rappresentata, come nell'Ottocento,
dalla ferrovia? Non è limitativo riversare così tante risorse finanziarie
nella realizzazione di un progetto costosissimo e dal ritorno economico più
che indefinito?
Al di là degli omaggi verbali di rito, la politica italiana
è restia ad accettare di misurarsi con una forma economica, quella codificata
nella categoria dell'«economia della conoscenza», che s'incentra su schemi
complessi di relazioni, strutturate e fluide. Essi certamente devono poter
beneficiare del fatto di appoggiarsi su reti e sistemi di connettività che
però - ecco lo snodo cruciale - non possono essere progettati senza muovere
dalle caratteristiche dell'utenza. Nel caso della Tav, che il presidente del
Consiglio ha addirittura dipinto enfaticamente come il mezzo destinato a congiungere
due oceani, questo aspetto è palesemente trascurato od omesso, così come si
passa sotto silenzio la sua ricaduta per i territori che deve servire.
Si adotti la dizione di «economia della conoscenza» o quella,
che sta entrando in voga, di soft economy6 per il probabile futuro del sistema economico italiano,
esso sembra che non possa essere agevolato più di tanto dalla Tav. In primo
luogo, perché la trasformazione a cui dobbiamo volgerci non può aspettare
e deve compiersi nei prossimi anni e anche perché il keynesismo elementare
delle grandi opere non costituisce la leva più significativa per influire
su questi processi. La minaccia di una distorsione nell'uso delle risorse,
anzi, esiste ed è concreta, così come è reale la possibilità che l'enfasi
sui grandi progetti sposti l'attenzione da un'agenda più immediata, anche
se non altrettanto magniloquente.
La politica deve riappropriarsi di una visione del futuro,
ma che si accompagni a un recupero del senso di responsabilità e della capacità
di rappresentanza. La via di fuga nella retorica delle grandi opere è una
distrazione che si può pagare con una perdita della presa sui processi di
cambiamento che sono in corso e che metteranno capo a un futuro più praticabile
e più prossimo prima di quanto non ci aspettiamo.
note
1 La
vicenda dell'opposizione della val di Susa alla Tav è riepilogata nel volume
realizzato da due
giornalisti: J. Giliberto e
E. Giudice, No Tav. Cronache di una valle incazzata, Rivoli (Torino),
Neos
Edizioni,
2005.
2 Emblematico in questo senso il numero speciale della rivista
«Diario della settimana», 16.12.2005,
dal
titolo Come non fare la Tav ed essere
felici.
3 Boring through
the Alps, «The Economist», 17.12.2005. Rocksoil è il nome della
società fondata dal
ministro
delle Infrastrutture e dei trasporti del secondo governo Berlusconi, Pietro
Lunardi.
4 C. Ciborra, Note fenomenologiche su Milano
e le reti, in Milano, nodo della rete globale, a cura di M. Magatti e
G. Sapelli, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 83-111.
6 Cfr. A. Cianciullo e E. Realacci, Soft
economy, con una postfazione di Carlo De Benedetti, Milano
Rizzoli,2005.