Seminario
Intervento di MARCO REVELLI
Marco Revelli
è professore associato di scienza dell’amministrazione presso la facoltà di
Scienze Politiche dell’Università del Piemonte orientale
Vorrei parlare di “parole”, del
potere delle parole.
Noi dobbiamo fare i conti con il
potere di chi tende a monopolizzare, a monopolizzare il racconto, a
monopolizzare il linguaggio, a usarlo impropriamente. L’abbiamo visto anche in
questi giorni, chi governa il racconto e lo usa contro le persone: contro la
gente, contro i protagonisti. E qui, questo mio intervento sarà un intervento
molto poco tecnico. Mi occuperò soprattutto di parole, e in particolare di due
parole che in questa vicenda l’hanno fatta da padrone.
E sono le parole «sviluppo» e la
parola «democrazia».
Sono due parole che sono state
usate come clave. Come clave. Pensate a quelle cinque sciagurate parole di
Ciampi, che sono rimbalzate ingigantite su tutti i giornali, e a quanto abbiano
pesato. Queste due parole sono parole che chi le usa pensa di annichilire
l’avversario. Perché gli si tappa la bocca, col mito dello sviluppo e il dogma
della democrazia. Naturalmente interpretato. Dal loro punto di vista.
E allora, scavare dentro queste
parole credo che sia importante.
Parliamo di sviluppo. Io credo che
non ci sia bisogno di aderire totalmente alle tesi radicali di Serge Latouche,
teorico della decrescita, per capire come la parola sviluppo sia una parola, un
concetto quanto meno ambivalente, carico di pericolo, di minaccia. Oltre che di
promesse, anche di rischio. A parte che Latouche non abbia le sue ragioni - e
io credo che abbia pienamente le sue ragioni. Latouche ha definito il termine
“sviluppo” una parola tossica, e non accetta nemmeno il concetto di “sviluppo
sostenibile” che lui considera un ossimoro, una parola auto contraddittoria,
una parola da cancellare… per definizione: nessuno sviluppo è sostenibile...
Perché questa diffidenza così
pesante verso lo sviluppo? Perché lo
sviluppo è deculturazione, ci dice Latouche, e soprattutto è una parola carica
di violenza. Dentro il termine sviluppo c’è una carica di violenza nascosta ma
potente. Delirio di onnipotenza, disprezzo dei limiti, di ogni limite,
monomaniacità, riduzione e assolutizzazione della dimensione quantitativa
rispetto a quella qualitativa, in particolare rispetto alla qualità della vita.
È una parola pericolosa, dunque. Io devo dire di avere letto queste pagine di
Latouche contemporaneamente alla lettura di un altro testo. Mi è capitato quasi
casualmente e mi ha colpito enormemente. Il Manifesto del Futurismo, scritto da
Marinetti all’inizio del secolo scorso, e che interpretava le posizioni di quel
gruppo. È un manifesto che gronda violenza. Mito della velocità, mito dello
sviluppo, di un progresso inteso come progresso meccanico e tecnologico, e
violenza. Violenza cruda, pura.
Si apre dicendo:
Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della
nostra poesia.
La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il
sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il
passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una
bellezza nuova: la bellezza della velocità.
[...]
Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un
capolavoro.
E, infine:
Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore, le belle gesta in cui si
muore, il disprezzo della donna
Il secolo nasce così, il secolo
dello sviluppo.
Nasce con questa filosofia e con
questa poesia, in qualche modo. Non mi ricordavo che subito dopo il Manifesto
del Futurismo, questa esternazione di Marinetti, c’era un successivo capitolo
intitolato: Uccidiamo il chiaro di luna. Marinetti chiama i suoi compagni futuristi a
una impresa di inaudita violenza; uccidere il chiaro di luna. Sono alcune
pagine in cui si racconta questa impresa.
Si sono lasciati alle spalle la
città di Paralisi, col suo gridìo di
pollaio, hanno devastato la città di Podagra... dei podagrosi, dei lenti,
di quelli che non apprezzano la velocità; hanno appena ucciso il chiaro di
luna, e che cosa fanno? Questo manipolo di poeti squadristi... Costruiscono il grande binario militare.
Scrive Marinetti:
fu così che trecento lune elettriche cancellarono con i loro raggi di
gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori, la luna. ...E il Binario militare fu costruito.
Binario stravagante che seguiva la catena delle montagne più alte e sul quale
si slanciarono tosto le nostre veementi locomotive impennacchiate di grida
acute, via da una cima all'altra, gettandosi in tutti i precipizi e
arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi affamati, di svolti assurdi e
d'impossibili zig-zag... Tutt’intorno, da lontano, l'odio illimitato segnava il
nostro orizzonte irto di fuggiaschi. Erano le orde di Podagra e di Paralisi,
che noi rovesciammo nell'Indostan.
Ecco, come dire? È indubbio che il nostro Sindaco, Sergio
Chiamparino non ha, per così dire, la sregolatezza geniale dei futuristi, ma un
po’ del loro istinto del distruttore se
lo porta dietro, se non altro nella forma del mito della modernità. Crede
davvero di essere moderno e che dall’altra parte ci sia l’arretratezza, la
lentezza, l’Arcadia, il mito dei pastori. Ci crede davvero, in qualche modo. E
questo un po’ inquieta. Si crede Cavour... l’ha scritto... l’ha detto... In
realtà, è il Solaro della Margherita, è il grande reazionario che si oppose a
Cavour perché aborriva la sovranità popolare, e immaginava il mondo, l’unico
mondo possibile, come il mondo che lui viveva. Come il mondo del diritto divino
dei sovrani. E nello stesso modo, questi nostri pseudo modernisti immaginano
che il futuro non sia nient’altro che la proiezione del presente, semplicemente
moltiplicato, quantitativamente, ingigantito. Che il futuro sia: se oggi
passano 100 milioni di tonnellate su un valico, il futuro saranno 200 milioni,
300 milioni, 400 milioni... Non immaginano che il mondo possa cambiare in
qualche modo.
I veri moderni sono i valsusini
che guardano lontano, il futuro... non sono questi tecnocrati che non hanno
nemmeno la fantasia di immaginare i limiti del loro sviluppo. Devo dire, quando
ho letto quelle dichiarazioni di Berta, di Chiamparino... manifesto degli
sviluppisti torinesi, che usavano appunto come una clava la parola
sviluppo, contro chi difendeva il
proprio territorio, mi è venuto in mente il passaggio di un bel libro che è
uscito da poco... di Carlin Petrini, che si intitola Buono, pulito e giusto; apparentemente un libro di gastronomia, in
realtà sullo stato del pianeta, sullo stato del mondo e sulla follia del nostro
modello di sviluppo. E a un certo punto Petrini racconta un aneddoto.
Tornando da un viaggio molto
faticoso... era abbattuto, stanco... decide di fermarsi vicino a Bra, in una
piola dove si mangiava, in genere, una deliziosa peperonata. Si ferma, va,
pregusta la sua peperonata, la ordina, gliela portano. La mangia... e faceva
schifo. Non sapeva di niente, insipida, cattiva. Chiama il suo amico cuoco e
gli dice: «Cosa hai combinato?» L’altro dice che ha cambiato i peperoni: «Sono
sempre della stessa specie, ma adesso non li prendo più qui, li compro in
Olanda dove costano di meno. Non sanno
di niente, ma costano di meno». Carlin Petrini è un contadino, tosto, testardo.
Decide di indagare, esce e decide di andare dal contadino che coltivava i
peperoni, per capire come mai lui non produce più i peperoni per le buone
peperonate. Lo trova e gli dice: «Come stanno i tuoi peperoni?». L’altro
risponde: «Quest’anno non produco più peperoni, pianto bulbi di tulipani che
spedisco in Olanda».
Allora, è questo il mondo per il
quale noi scaviamo i buchi di 52 km?, è questa la qualità della vita?, è questo
quello che vogliamo dare ai nostri figli? Peperoni olandesi e agli olandesi
tulipani italiani? È questo il progresso?, il valore? È contro questo che i
barbari della Valle di Susa si oppongono? Ecco, c’è qualcosa che non funziona
in questa idea dello sviluppo.
L’altra questione, la democrazia.
Ora, che la democrazia non sia
governare a colpi di maggioranza, lo si sa non da oggi, non da ieri, lo si sa
almeno dal 1835, quando Alèxis de Toqueville scrisse il suo libro La démocratie en Amérique. C’è un
capitolo molto interessante, intitolato Tirannide
della maggioranza.
Scriveva il vecchio Toqueville:
«Considero empia e detestabile questa massima, che in materia di governo
la maggioranza di un popolo ha il diritto di fare tutto, e tuttavia pongo nella
volontà della maggioranza l’origine di
tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso? No», spiega «esiste una legge generale che è stata fatta,
o almeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla
maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia. La giustizia rappresenta, dunque, il limite
del diritto di ogni popolo. Una nazione è come una giuria incaricata di
rappresentare la società universale e di applicare la giustizia, che è la sua
legge. La giuria che rappresenta la società deve forse avere più poteri della
società stessa di cui applica le leggi? Quando, pertanto, mi rifiuto di
obbedire a una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di
comandare; faccio appello soltanto alla sovranità del popolo, alla sovranità
del genere umano».
Ecco, che gli interessi delle maggioranze debbano rispondere a criteri di giustizia e rispettare i diritti e gli interessi delle popolazioni e dei territori, appunto è cosa che è ignota ormai solo alla nostra Presidente delle Regione, la signora Bresso, ma da alcuni secoli a questa parte è elemento permanente nelle teorie della democrazia. Tant’è vero che oggi, nel dibattito politologico e filosofico-politico, non si usa mai genericamente il termine democrazia. La democrazia è sempre qualificata da un aggettivo. Perché non ha senso il termine generico. Ha senso solo se si vuole fare una guerra, se si vuole occupare un paese. Allora si dice che si vuole esportare la democrazia, ma è un uso retorico, è atroce, è l’uso che distrugge il significato del termine. Chi parla di democrazia, oggi, parla di diversi tipi di democrazia. Abbiamo la democrazia associativa, la democrazia deliberativa, la democrazia partecipativa. Sono tutti aggettivi qualificanti, i quali tendono ad affermare che non basta l’espressione a colpi di maggioranza e con il conteggio dei voti. I processi democratici sono e devono essere processi discorsivi, processi all’interno dei quali le posizioni vengono valutate, gli interessati vengono informati e si procede discorsivamente. Questo è... lo sottolineo tra virgolette... la definizione della democrazia deliberativa, «senza interventi coercitivi». La democrazia non si impone con i manganelli. Le decisioni non si impongono ....
Tutte le più interessanti teorie
della democrazia oggi parlano di decentramento, territorio, associazione dei
cittadini sul territorio. La democrazia associativa non è la democrazia degli
atomi, che delegano al decisore e non disturbano il manovratore. La democrazia
associativa sono i cittadini che si mettono insieme, che si associano e
dibattono e affermano i loro problemi.
Mi sembra che in quello che
succede oggi in Piemonte, in Italia, stia prendendo forma questo tipo di
democrazia. Una democrazia deliberativa vera, quella che riempie la bocca nei
dibatti dei DS, nei seminari universitari... la democrazia deliberativa
applicata al caso della Valle di Susa, io credo dovrebbe misurarsi con alcune
semplici domande, e chiedere delle risposte argomentate a queste domande. Le
sintetizzo velocemente, perché non abbiamo più tempo:
È vero o non è vero che l’attuale linea storica che attraversa la Valle di Susa è sottoutilizzata per il 60, 70%?
Sono vere le argomentazioni che
abbiamo sentito?
È vero o neon è vero che il flusso
delle merci è diminuito nell’ultimo quinquennio?
È vero o non è vero che una spesa
limitata – meno di un miliardo di euro – e un anno o poco più di lavori
potrebbero portare la capacità della linea storica a 20, 22 milioni di tonnellate?
È vero o non è vero che con tale
potenziamento, e tenendo conto delle altre linee in costruzione dalla Svizzera,
i livelli pur folli di traffico attraverso le Alpi previsti per il futuro
potrebbero essere assorbiti dai valichi ferroviari, anche senza l’Alta Capacità
Torino-Lione? E questo anche nel caso assurdo che fosse trasferito da strada a
ferrovia tutto il surplus di merci previsto per i prossimi 15 anni, cioè 100
milioni di tonnellate annue che in questo modello folle si prevedono?
È vero o non è vero che questa
spesa già insostenibile – 16 miliardi di euro – è destinata a crescere?... la
Torino – Milano è cresciuta del 220% nei costi previsti inizialmente.... Ed è vero o non è vero che questo enorme debito
graverà sul bilancio pubblico per decenni, anche dopo la fine dei progettati
lavori?
E allora, se non si risponde a queste domande, se queste domande non si pongono nemmeno, qual è il criterio in base al quale i decisori pubblici decidono? La tentazione sarebbe quella di dire: sono pazzi. Sono pazzi. Un’opera assurdamente cara, inutile, e dannosa... ma con quale criterio viene decisa? E in effetti, un po’ pazzi lo sono. Certo, questo è un elemento di pazzia non delle persone, ma della dimensione politica, della dimensione oligarchica della politica. Contiene una certa carica di paranoia, l’incapacità di misurarsi con l’altro, il delirio di onnipotenza. Badate che, però, non è solo pazzia.
I criteri decisionali non sono
quelli che noi crediamo. La politica vive non sulla base degli obiettivi dichiarati...
collegare tutta l’Europa, favorire il trasporto, passare dalla strada alle
rotaie... non sulla base degli obiettivi dichiarati ma sulla base di obiettivi
e interessi occulti. Obiettivi non dichiarati e in qualche caso inconfessabili.
Alcuni obiettivi anche dignitosi. L’uso di questa spesa in funzione
anticiclica, per esempio... Ma qui bisognerebbe discutere di spenderli meglio,
quei soldi. Se dobbiamo usarli in modo anticiclico, questi 16 miliardi (32.000
miliardi di lire...) di cose per mettere al lavoro le persone se ne potrebbero
fare di molto buone.
Un altro obiettivo meno confessabile
è quello di avere, da parte dei decisori pubblici, disponibilità di risorse
nelle proprie mani, di cui decidere. Miliardi di euro sono una risorsa straordinaria
per gente che è diventata imprenditore di sé stesso. Che non rappresenta più
persone, idee, territori ma che tende e a valorizzare e migliorare la propria
immagine. E poi, gli obiettivi inconfessabili sono le lobby.
Le grandi opere pubbliche, è stato
detto, servono soprattutto a chi le fa. È indifferente l’uso che ne verrà
fatto. Ecco: se a questa devastazione della democrazia confrontate invece le
pratiche di territorio in Valle di Susa, le troverete ricche di tutti gli
aspetti virtuosi della democrazia: la democrazia partecipativa, la democrazia
associativa, la democrazia deliberativa, con i sindaci, che non sono oligarchi
che decidono sulla testa di qualcuno, ma prendono le proprie decisioni in
rapporto diretto con la popolazione, con la gente che si riunisce nelle piazze,
che delibera e discute; con i processi di apprendimento di cui parlavo prima.
Per cui, quando parliamo di
democrazia, tra Torino e la Valle di Susa, non c’è dubbio: la democrazia è là.