Diffamare i No Tav non è reato?Per i pm di Milano affermare che i no Tav sono «quanto resta del terrorismo degli anni Settanta» e che «per un torinese no Tav significa terrorista metropolitano» è falso ma non costituisce reato. Incredibile ma vero e coerente con le scelte ultradecennali delle Procure che si sono occupate di Tav in Val Susa. Ora si aspetta la decisione del gip.
di Livio Pepino da osservatoriorepressione.info del 20-06-2022 https://www.osservatoriorepressione.info/diffamare-no-tav-non-reato/
L’antefatto è noto. Domenica 10 ottobre 2021, nella trasmissione Mezz’ora in più su Rai3, il direttore de la Repubblica Maurizio Molinari, intervistato da Lucia Annunziata, si è esibito, a freddo e senza alcun collegamento con l’oggetto dell’intervista (l’assalto del giorno precedente alla sede della Cgil), in questa singolare dichiarazione: «I no Tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni Settanta. Aggrediscono sistematicamente le istituzioni, la polizia, anche i giornali, minacciano giornalisti a Torino. Per un torinese no Tav significa sicuramente terrorista metropolitano; chiunque vive a Torino ha questa accezione».
A fronte di queste dichiarazioni irresponsabili e prive di qualsivoglia fondamento centinaia di aderenti al movimento no Tav hanno presentato querela per diffamazione, in prevalenza alla Procura di Torino.
Il seguito è ancora in corso ma è, già ora, istruttivo e ricco di implicazioni generali.
Alcune querele sono rimaste incardinate a Torino mentre la maggior parte è stata trasmessa alla Procura della Repubblica di Milano per competenza territoriale, essendo Molinari residente nel capoluogo lombardo.
Sono passati alcuni mesi ed ecco le prime richieste dei pubblici ministeri milanesi. Si tratta – e la cosa sarebbe incredibile se non si fosse in presenza di procedimenti riguardanti il movimento no Tav – di richieste di archiviazione.
Per un primo gruppo di querele il pubblico ministero ha chiesto al gip di trasmettere gli atti all’archivio perché «il movimento No TAV risulta un movimento d’opinione a cui partecipano associazioni, gruppi e singole persone che si uniscono per singole iniziative senza strutture in qualche modo unificanti. Non pare quindi enucleabile l’offesa ad una persona determinata, sia pure un ente collettivo, che, secondo la giurisprudenza di legittimità la norma (l’articolo 595, comma 3, codice penale, ndr) punisce». Come dire che si può affermare impunemente che il movimento antifascista è fatto di assassini o quello ecologista di ladri senza che nessun antifascista o ecologista possa adire un tribunale a tutela della propria onorabilità. Naturalmente il solerte pubblico ministero cita a sostegno un paio di sentenze (che peraltro, se lette con attenzione, dicono tutt’altro) ma dimentica la giurisprudenza pressoché costante secondo cui «alle associazioni, agli enti di fatto privi di personalità giuridica […] è riconosciuta la capacità di essere soggetti passivi del delitto di diffamazione e la corrispondente titolarità del diritto di querela […] e la legittimazione compete anche ai singoli componenti allorché le offese si riverberano direttamente su di essi, offendendo la loro personale dignità» e «qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili o individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato di cui all’art. 595 codice penale».
L’abnormità della richiesta è probabilmente troppo per la stessa Procura. Così un altro pubblico ministero, per un altro gruppo di querele, abbandona l’argomento ed entra nel merito. Ma solo per affermare che «non si ravvisano allo stato elementi sufficienti per affermare oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità dell’indagato per il reato ipotizzato […], potendosi ritenere che nel caso in esame la condotta […] non abbia travalicato i confini della scriminante del diritto di critica (art. 51 codice penale)», e ciò perché i toni usati da Molinari sono «aspri e forti ma non gravemente infamanti e gratuiti» e nelle sue dichiarazioni è rinvenibile «un nucleo di verità storica» seppur «in una dimensione ridotta e in confini labili» (sic!). Incredibile ma vero. Il Movimento No Tav è attivo da oltre 30 anni; ha sempre agito alla luce del sole; è articolato e composito; ha al suo interno gran parte dei sindaci della Val Susa, interi consigli comunali, studiosi di diverse Università; è stato definito “esemplare” nella sentenza 8 novembre 2015 del Tribunale permanente dei popoli; ha organizzato e gestito centinaia di manifestazioni con la partecipazione di decine di migliaia di persone. In questa storia trentennale ci sono stati anche, come in gran parte dei conflitti sociali, episodi di violenza e scontri con le forze di polizia che peraltro, seppur enfatizzati dai media, sono stati limitati e circoscritti. In ogni caso, anche quegli episodi non hanno nulla a che fare con il terrorismo. La stessa Procura di Torino, nella sua lunga crociata contro il Movimento, ha fatto ricorso alla contestazione di terrorismo per un unico episodio e nei confronti solo di quattro giovani: ed è stata totalmente smentita dai giudici, che hanno assolto gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, «perché il fatto non sussiste».
Ma tutto questo non rileva per il pubblico ministero che si guarda bene dallo spiegare come un insulto possa essere ritenuto un termine “forte” ma non diffamatorio e quale sia il “nucleo di verità storica” che legittima le dichiarazioni dell’imprudente direttore de la Repubblica. Il tutto in omaggio all’antica prassi giudiziaria secondo cui le cose insostenibili è meglio non motivarle. Il messaggio è, a dir poco, anomalo: dare a qualcuno del terrorista, se quel qualcuno è un no Tav, non è diffamatorio ma rientra nel diritto di critica anche se l’affermazione è palesemente falsa.
Adesso la parola passa al gip di cui attendiamo con interesse le determinazioni. Con interesse ma con scarsa fiducia perché la storia ultradecennale dei processi relativi al Tav in Val Susa mostra – in una sorta di caso di scuola che sarebbe bene studiare nei corsi universitari di sociologia del diritto e in quelli della Scuola della magistratura – la realtà, nel nostro Paese, di un diritto disuguale e la compresenza, nella concreta applicazione del diritto penale, di un codice per i briganti e di un codice per i galantuomini destinati invariabilmente a confermare i rapporti di forza presenti nella società. I capitoli di questa storia, in Val Susa, sono noti.
Da una parte la repressione capillare e indiscriminata del movimento di opposizione al Tav in quanto tale con la dilatazione a dismisura delle misure cautelari e delle ipotesi di concorso di persone nei reati classici del conflitto sociale (resistenza a pubblico ufficiale e violenza privata), l’abnormità delle contestazioni e il circuito preferenziale accordato si processi contro appartenenti al movimento (anche per reati bagatellari): il tutto favorito dalla costituzione presso la Procura di Torino di un pool preposto al contrasto del movimento di opposizione prima ancora del manifestarsi di reati e da una accorta gestione dei processi a mezzo stampa .
Dall’altro l’archiviazione immediata e immotivata delle molte circostanziate denunce per abusi delle forze di polizia ) e il mancato perseguimento di ogni esposto sulla correttezza nella realizzazione della nuova linea ferroviaria.
Spesso le forzature in sede di esercizio dell’azione penale sono state smentite o ridimensionate in sede dibattimentale (come nel caso – clamoroso – della contestazione di terrorismo) ma ciò è, ovviamente, insufficiente: non solo perché la sottoposizione a processi e a lunghe carcerazioni (anche se seguiti da assoluzioni dibattimentali) non è certo indolore ma anche perché i giudici possono intervenire e rendere giustizia solo se i pubblici ministeri iniziano e coltivano i processi. È questo il caso delle querele per le dichiarazioni diffamatorie di Molinari.
La speranza è che l’inerzia dei pubblici ministeri sia contrastata e corretta dal gip. Altrimenti saremo di fronte all’ennesima, triste conferma che il proverbio siciliano «Giustizia stava scritto su u’ portone e ci credette u’ minchione» (che ha campeggiato per anni, scritto con mano malferma, sul portone della Casa penale di Favignana) manterrà piena attualità. |