Niente DOVRA’ ESSERE più come prima
di Marco Revelli da Volerelaluna del 08-04-2020
https://volerelaluna.it/controcanto/2020/04/08/niente-dovra-essere-piu-come-prima/
Non è vero che “niente sarà più come prima”, dopo il coronavirus. Sono tanti, troppi, quelli che già ora, in piena emergenza, lavorano febbrilmente perché tutto torni a essere “come prima”. Peggio di prima. Sono quelli che hanno preparato il disastro, e che sgomitano per continuare a governarlo sulle stesse “linee guida”, con gli stessi miti, a difesa degli stessi interessi. Sono i testardi che anche dopo l’evidente fallimento dei loro feticistici dogmi, generatori del caos in cui siamo precipitati, si danno da fare per confermarli quei dogmi, rafforzati dal potere coattivo dello “stato d’eccezione”.
Li vediamo ogni giorno, tra noi, contro di noi, attivi e ben visibili pur nel confinamento domestico del resto della popolazione. A invocare, intimare, pretendere. Sono le migliaia di imprenditori che si affollano a chiedere la “riapertura” senza neppure aver mai veramente “chiuso”, imponendo ai propri dipendenti – come a post-moderni servi della gleba – di rischiare la pelle per loro. E prolungando così, nell’emergenza, il modello dispotico di relazioni industriali che avevano praticato nella precedente perversa normalità.
Sono i “Signori dell’Europa”, i governanti dell’Asse del Nord, quelli che in nome dell’austerità hanno imposto i tagli alla sanità che hanno sguernito le difese essenziali in metà del continente – facce di pietra e braccini corti –, ancora ieri, oggi, nel pieno dell’”infuriar del morbo”, a predicare rigore nei conti e negare ostentatamente e ostinatamente l’ossigeno necessario per vivere a sistemi economici e finanziari già prima all’asfissia. Hanno guidato l’Europa contro i suoi popoli, la vogliono vedere piegata e in rovina pur di salvare i loro modelli matematici “made in Chicago”.
Sono i politici da strapazzo che hanno costruito il proprio consenso a suon di retoriche e boutades, e che continuano ancora oggi a vivere di battute al momento giusto e colpi di teatrino, indifferenti alle possibili ricadute “mortali” delle loro sparate su messe pasquali, riaperture immediate, o “immunità di gregge”, candidandosi a guidare il mondo di domani con lo stesso stile acefalo del loro ieri.
Così a Torino è tornato fuori quell’Alberto (che di nome fa Corrado), già tra i promotori con le “madamine” della mobilitazione di un anno fa (e sembra un secolo) a favore del TAV, per invocare, senza traccia di pudore, che la “Ripartenza” – la chiama così – sia all’insegna dello “spirito SI-TAV” (“Per uscire dalla crisi ricreiamo lo stesso spirito con cui sbloccammo la TAV”, recita il titolo a tutta pagina di Repubblica Piemonte). Senza che nessuno tra gli addetti all’informazione gli ricordi che col denaro già buttato in quel buco inutile e dannoso si sarebbe potuto tenere in piedi buona parte del sistema sanitario regionale che invece sotto l’urto dell’epidemia è collassato costando la vita a migliaia di persone. E che con il costo di un centimetro di quell’opera maledetta (1.587,12€) si potrebbe pagare lo stipendio di un infermiere delle terapie intensive, mentre con quello di 500 metri (79.356.000 Euro) si potrebbe costruire un ospedale da 300 posti letto.
E così, a Berlino, è tornato fuori quel Wolfgang Schäuble che nel 2015 aveva condannato a morte la Grecia imponendole l’umiliazione letale del Memorandum, e che ora si mette di traverso sulla questione dei “coronabond” pretendendo che si passasse, per ricoprire i debiti dell’emergenza sanitaria dei Paesi mediterranei, per le forche caudine del MES, che riproporrebbe oggi lo stesso tallone di ferro che costò al tempo vita e salute a migliaia di pensionati ellenici. Riemerso dalle nebbie del Bundestag al cui vertice era stato “confinato”, l’ex ministro di ferro delle finanze tedesche tira dritto, come se niente stesse succedendo, sulle rovine dell’Europa dettando la legge del più forte in cui lui, e i tanti come lui nel mondo del privilegio europeo, hanno sempre creduto.
E ancora, e infine – per completare il museo degli orrori – che dire di Matteo Renzi che s’infila nella fessura stretta aperta dall’appiattimento della curva dei contagi per decretare – come fosse ancora quello del ‘14 – che “Dopo Pasqua l’Italia deve ripartire”; e dell’altro Matteo, suo simmetrico, che sfoderando un immaginario tendenzialmente criminale, invoca, anche lui per Pasqua, l’apertura delle chiese perché “abbiamo bisogno dell’aiuto della madonna” (sic). Azzardo degno di quello del suo sodale Fontana che nella fase caotica della crisi sanitaria lombarda fece trasferire i positivi al virus nelle Case di riposo per anziani, con mossa da piromane in una raffineria, o da maestro degli untori milanesi. Anche loro, tutti insieme, s’immaginano leader del prossimo futuro…
E in effetti, a guardarne il curriculum e il palmarés, soli non sono. Né così ai margini come meriterebbero. Corrado Alberto è il Presidente dell’Api, rappresenta le piccole industrie, quelle che in questo momento premono di più e fanno più lobbying per la “riapertura” contro scienziati e buon senso (sulla seconda pagina de “La Stampa”: La curva dell’epidemia inizia a scendere. Gli esperti ”Massima cautela o ripartirà”, in terza: Dal governo un passo verso a fase 2. Le industrie si preparano a riaprire). Sono circa 71.000 (70.927 per la precisione) le aziende che hanno fatto richiesta in deroga ai prefetti, motivandole col fatto che sono legate alle “filiere essenziali”. Di queste quasi 5.000 sono in Piemonte (4.644), più del triplo in Lombardia (16.740) e in Emilia Romagna (15.980), il doppio in Veneto (10.600). “Repubblica” ci dice che il 67% sono “nelle regioni più colpite dal virus”, e forse un nesso tra la mortalità delle persone in queste regioni e il vitalismo esasperato del loro tessuto industriale c’è o dovrebbe essere individuato…
Wolfgang Schäuble, per parte sua, non fa altro che riproporre il pensiero del Governatore della sua Banca centrale Jens Weidemann che alla vigilia dell’Eurogruppo ha ribadito come un’apertura di credito attraverso il Meccanismo europeo di stabilità resta la sua opzione preferita aggiungendo, con un notevole sense of humor che essa “potrebbe essere offerta a condizioni più agevoli in questo periodo di emergenza per dimostrare la necessaria solidarietà tra i membri della zona euro”. E’ stato lui, e quelli come lui – il finlandese Olli Rehn, il danese Lars Rohde, l’austriaco Robert Holzmann – a spingere la governatrice della Bce Martine Lagarde alle famigerate dichiarazioni nella conferenza stampa del 12 marzo sull’indisponibilità dell’Eurotower a interventi di sostegno per i paesi più colpiti dall’epidemia (“Non siamo qui per mitigare gli spread”), interpretate impropriamente come una gaffe quando in realtà altro non erano che l’esternazione, certo un po’ sgradevole ma fedele, del pensiero degli “azionisti di riferimento”. L’austriaco Holzmann, d’altra parte, negli stessi giorni, si era spinto a definire una “purificazione” (reinigung in tedesco) l’eliminazione dal mercato dei soggetti economici più deboli per effetto della crisi indotta dal virus, dopo che una politica del credito troppo generosa li aveva indebitamente conservati in vita: dunque una sorta di selezione darwiniana da cui gli altri sarebbero usciti “più forti”. E quella – se non ce ne fossimo accorti -, nella sua brutalità rivelata dalle circostanze tragiche del momento, è l’arriére pensée di tutti fautori del paradigma ultra-liberista che ha imposto il disegno delle nostre società nell’ultimo quarto di secolo. La “metafisica influente” sottesa all’ideologia dominante ormai da tempo, che ha preparato la malattia sociale su cui si è innestata la malattia biologica che oggi imperversa.
Quanto ai demagoghi nostrani, infine, non sembrano molto diversi dagli altri leader populisti di ultima generazione del mondo, dai Boris Johnson, dai Donald Trump, dallo stesso Bolsonaro, tutti caratterizzati – una sorta di comun denominatore – da un approccio contraddittorio e dissennato, sostanzialmente irresponsabile al virus, come ossessionati più dai vantaggi “retorici” che potessero assicurarsi con atteggiamenti popular-populisti nel discorso dall’emergenza, che da un qualche senso di responsabilità decisionale e operativa di fronte ai rischi per la vita delle persone. Hanno oscillato tutti tra forme “machiste” di sottovalutazione e sfida di fronte al virus (quasi fosse un nemico da sfidare o umiliare: “è poco più che un raffreddore”, “non mi fa paura”) e sue improvvise drammatizzazioni (chiudere tutto, porti e aeroporti, blindarsi dentro, dar la caccia agli untori soprattutto se stranieri, guai alla Cina, ecc.), tra teorizzazioni di disumane “immunità di gregge” in stile iperliberista (selezione naturale, laissez faire laissez passer, non si scambia la libertà per la salute, ecc.) e di primati dell’economia che non si lascia frenare da misure di sicurezza “collettiviste” e che deve, costi quel che costi, “ripartire”. Escono, tutti, da questa prova malissimo, se prevalesse una minima forma di giudizio razionale, e tuttavia si candida, tutti, come se fossero i migliori players su piazza, a governare il futuro sapendo di essere – la storia insegna – i veri utilizzatori finali di ogni “stato d’eccezione”.
Per questo non possiamo illuderci che la semplice “forza delle cose” produca il cambiamento. Che il virus – per una qualche eterogenesi dei fini – induca quel rovesciamento di valori e poteri che non avevamo saputo produrre. Sarà tutto “come prima”. Anzi, “più di prima”, nel senso di “peggio di prima”, con gli eroi di oggi – i medici, gli infermieri, i lavoratori manuali, gli addetti alla logistica, quelli che hanno permesso a tutti noi di sopravvivere – rimessi al loro posto, al fondo della piramide sociale, e gli altri, i furbi di sempre, quelli che avranno saputo approfittare dei mali degli altri dopo averli provocati, di nuovo sulla cima. Al passivo motto – al motto tipico delle “rivoluzioni passive” – che ripete come un organetto rotto che “niente sarà come prima” dobbiamo sostituire l’opposto, attivo e progettuale proposito: “niente deve essere più come prima”.
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