La trattativa nella trattativa
Si diceva «tormentato» Nicola Mancino, ex ministro degli Interni dal giugno 1992 all’aprile del 1994, dall’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia nella quale, da semplice testimone, si è trovato ad essere iscritto nel registro degli indagati per la (supposta) falsa testimonianza resa al processo Mori. E il tormento di Mancino lo ha spinto a cercare un aiuto nel Quirinale che, a quanto emerge dalle intercettazioni della Procura di Palermo, non si è tirato indietro. L’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia sta mostrando tutte le sue pieghe, gravide di misteri.
Le richieste di Mancino al Quirinale
Già il 16 giugno scorso il Quirinale ha dovuto smentire le “irresponsabili illazioni” in merito al contenuto di una lettera, pubblicata su Il Fatto quotidiano e ripresa da alcuni giornali, inviata dal Quirinale al procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito. In questa lettera si chiedono chiarimenti sulla configurabilità penale della condotta degli esponenti politici coinvolti nell’indagine. Alla lettera è allegata una missiva di Mancino a Napolitano in cui si segnalava l’opportunità di raggiungere una visione giuridicamente univoca tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, tutte parallelamente impegnate nella verifica del ruolo di ex ministri e parlamentari nel biennio della trattativa. Un modo per “sfilare” l’inchiesta alle procure che se ne stanno occupando, Palermo e Caltanissetta in testa.
All’origine della missiva di Mancino a Napolitano c’è una serie di telefonate (intercettate) tra l’ex ministro e Loris D’Ambrosio, magistrato che lavora nella segreteria generale del Quirinale. Il 9 dicembre del 2011 Mancino chiama D’Ambrosio e si definisce “un uomo solo” dopo il suo interrogatorio davanti alla procura di Palermo. L’ex ministro è accusato di falsa testimonianza nell’indagine sulla trattativa e secondo gli inquirenti avrebbe detto il falso con l’obiettivo di assicurare l’impunità anche ad alti esponenti delle istituzioni.Oltre che a se stesso.
Le intercettazioni
Il 5 marzo 2012 Mancino parla di nuovo al telefono con D’Ambrosio: teme il confronto in aula con Vincenzo Scotti, suo predecessore al Viminale. D’Ambrosio prova a rassicurarlo: «Posso parlare col presidente (Napolitano, ndr) che ha preso a cuore la questione ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo. L’altro è Grasso. Ma il pm Nino Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…». Di Matteo, pm a Palermo, sta indagando appunto su alcuni aspetti della Trattativa legati all’ex capo dei Servizi segreti, il prefetto Mario Mori, in cui Mancino è stato sentito, insieme a Scotti e Martelli, come testimone prima di finire nel registro degli indagati per aver reso falsa testimonianza.
Alle telefonate di Mancino segue una lettera al presidente Napolitano, il quale – per mano di Donato Marra, segretario generale della Presidenza – scrive a Esposito, procuratore generale della Cassazione. Non solo. Mancino avrebbe chiamato direttamente il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, cercando di evitare di essere posto a confronto con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. Il faccia a faccia in Procura si tiene però regolarmente: Martelli conferma di aver chiesto a Mancino le ragioni dell’iniziativa investigativa avviata nel ’92 dal Ros di Mario Mori con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Mancino, invece, continua a negare con decisione. In seguito a quell’udienza, Mancino sarà iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di falsa testimonianza.
L’intervento della procura generale della Cassazione a favore di Mancino
Nel frattempo Esposito si muove. Nei primi giorni di marzo richiede al procuratore nisseno Sergio Lari l’invio degli atti dell’inchiesta su via D’Amelio, entrando a gamba tesa nell’attività del distretto giudiziario siciliano che indaga sulla morte di Falcone e Borsellino. Al punto che Lari commenta attonito: “Sono disorientato”. La richiesta di Esposito viene letta inizialmente come la premessa di una possibile azione disciplinare nei confronti della procura nissena per aver violato la privacy dei tanti nomi eccellenti contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Alessandra Giunta, di cui vengono riportate le deposizioni, ma anche le tante contraddizioni, le reticenze, le omissioni e le bugie.
Mancino si sente meno solo. Prende il telefono e chiama direttamente Esposito per congratularsi: quella iniziativa è “un segnale forte”, dice, una mano tesa “in difesa dei politici”. Le sue parole restano ancora una volta incise nelle bobine delle intercettazioni.
Le pressioni su Grasso
L’11 aprile 2011 il procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, lascia il suo incarico per raggiunti limiti di età e viene sostituito da Gianfranco Ciani. Il nuovo procuratore generale dà corso alle richieste di Mancino arrivate via Quirinale. Il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, il 19 aprile è infatti convocato da Ciani per sentirsi chiedere il coordinamento tra procure che piaceva a Mancino. Grasso però rifiuta. Non già per spiccato senso dello Stato se è vero quel che dice Mancino nel dicembre 2011 che, intercettato ancora con D’Ambrosio, parla così di un suo incontro con il procuratore nazionale antimafia: «Io ho visto Grasso in una cerimonia (per gli scambi d’auguri natalizi al Quirinale, ndr.), stava davanti a me. Mi ha detto: “Quelli lì (Procura Palermo ndr.) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione” e io ho detto: “Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati”». Mancino non è ancora indagato, ma teme di diventarlo. Auspica, se non l’avocazione, un coordinamento della Procura nazionale che sfili l’inchiesta ai pm nisseni. Un’idea fissa che lo porta a bussare alla porta di Napolitano, a telefonare a Messineo, a fare (indirettamente) pressioni su Grasso e tutto con una sponda del Quirinale. «Avocazione che è nei miei poteri, ma nel caso Mancino non vi erano i requisiti per poterla applicare» spiega Grasso in un’intervista al Fatto quotidiano nella quale conferma di aver ricevuto pressioni “dall’alto”.
Il presidente Napolitano, in una nota, dichiara di essersi “mantenuto nei limiti del suo mandato” limitandosi a segnalare alla procura generale della Cassazione la situazione esposta da Mancino, che per Napolitano fu anche capo del Consiglio Superiore della Magistratura.
Una trattativa nella trattativa?
Quel che dunque si sa, finora, è che Mancino temendo d’essere indagato per falsa testimonianza (come poi avvenne) contattò il Quirinale e fece pressioni su Messineo. Mancino probabilmente ha mentito per proteggere qualcuno oltre che se stesso. Dal Quirinale sollecitarono prima Esposito poi Ciani a muoversi su Grasso, che fu effettivamente contattato come da egli stesso confermato. Grasso, dalle intercettazioni, dimostra poca simpatia verso “quelli lì” che indagano sulla Trattativa. E questa sembra una trattativa nella trattativa: far tacere i pm nisseni togliendo loro l’indagine con qualche escamotage giuridico o burocratico, forse con l’avallo (o almeno con l’involontaria sponda) del Quirinale, attraverso l’intervento (mancato) del Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Sullo sfondo la ricerca della verità in quella che è il momento più buio della storia dell’Italia repubblicana, che ancora allunga le sue ombre sul presente: il duplice attentato mafioso a Borsellino e Falcone. Eppure a sembrare mafiosi sono proprio questi intrallazzi.
Trattativa Stato-mafia, parla l’ex ministro Scotti
”Sulla presunta trattativa Stato-mafia non dico una parola. Ci sono indagini in corso eppoi ho già detto tutto nel mio libro ‘Pax mafiosa o guerra?‘ ma credo sia giunto il momento di aprire una riflessione politica nel Paese, per affrontare il problema della presunta trattativa in modo laico, cioè senza pregiudiziali ideologiche e senza fare processi in piazza”. Lo dice Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992, in un’intervista al Corriere della Sera, in merito alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’8 giugno scorso, a Palermo, Scotti è stato sentito in qualità di persona informata sui fatti dal procuratore aggiunto, Antonio Ingroia.
La trattativa, su cui stanno indagando gli inquirenti nisseni, è (o sarebbe) un compromesso raggiunto tra le istituzioni dello Stato e Cosa nostra. Una trattativa in cui la mafia chiedeva, attraverso il famigerato “papello”, che venisse cancellato il carcere duro del 41bis, che fosse cancellata la norma che prevedeva il sequestro dei beni ai mafiosi, che venisse rivisto il reato di associazione mafiosa e che l’arresto avvenisse solo in “fragranza di reato” (sic), che la benzina venisse defiscalizzata in Sicilia. In cambio Cosa nostra offriva la “pace”, basta attentati insomma, più la testa di Riina di cui Provenzano desiderava disfarsi. Via Riina e via le stragi. Semplice. E forse questa semplicità a qualcuno piacque. Forse piacque a Mario Mori, colonnello dei Ros, indicato nel “papello” come tramite tra Stato e mafia, e forse piacque ai servizi segreti visto il coinvolgimento nella vicenda di Bruno Contrada, condannato nel 2007 a dieci anni di carcere per collusione con Cosa nostra e, all’epoca dei fatti, capo della Mobile di Palermo e numero tre del Sisde. Quel che resta da capire è cosa, a Roma, nelle stanze del potere, si sapesse. E da qui si arriva alle indagini su Nicola Mancino e sullo stesso Scotti. Il governo sapeva o no della “trattativa”, la promosse o semplicemente si limitò ad avallarla? Secondo le ricostruzioni dei procuratori Ingroia e Di Matteo, la “trattativa” ebbe una vittima eccellente: Paolo Borsellino, che seppe dello scellerato patto e poteva, per questo, esserne d’intralcio.
Per Scotti è dunque ora di fare chiarezza, “e questo, a proposito della presunta trattativa, si può ottenere chiarendo, già davanti alla commissione antimafia, che cosa realmente accadde. E perché”. ”Non faccio nomi -prosegue- ma sicuramente tutti i presidenti del Consiglio, i ministri dell’Interno e della giustizia, tutti i capi delle forze dell’ordine e i responsabili della magistratura dell’epoca, diciamo tra il ’90 e il ’97, con un po’ di coraggio potrebbero certamente contribuire a fare chiarezza. Anche perché la partita con la mafia è ancora aperta”. Ma ci fu o no la trattativa tra lo Stato e Totò Riina per evitare altre stragi? ”Non ho elementi per dirlo - replica l’ex titolare del Viminale - di sicuro dopo di me ci fu un cambiamento di linea. Lo ha detto Conso (l’ex Guardasigilli, ndr) pubblicamente: lui non confermò i 41 bis, il carcere duro per i mafiosi”. ”Certi giudizi appartengono all’analisi storica, ma certamente mi hanno fatto fuori”, taglia corto Scotti.
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