Prefazione
al libro Le grandi opere del Cavaliere di IVAN CICCONI – Koinè Nuove
edizioni
Se c’è un sistema per combattere
il regime che da tre anni ammorba l’Italia a colpi di menzogne e vergogne, è
quello adottato da Ivan Cicconi: rispondere punto per punto alla disinformatija,
con competenza e chiarezza. Non è facile spiegare ai non addetti ai lavori la
truffa spaventosa che si cela dietro a parole altisonanti, ovviamente in
inglese, come “project financing” e “general contractor”. Ivan Cicconi, pur essendo
un tecnico, ci riesce meglio di tanti giornalisti che hanno preso per buona la
tragica favola delle “grandi opere” con tutto il suo corollario di faccendieri
impresentabili ma sempre a galla e di affari sporchi passati, presenti e
futuri. In fondo, questo libro è la naturale prosecuzione di La storia del
futuro di Tangentopoli.
Basterebbe, per rendere l’idea
della posta in gioco, mettere insieme i nomi dei vari Cirino Pomicino, Lorenzo
Necci, Francesco De Lorenzo, Franco Carraro, Ercole Incalza e Pietro Lunardi,
protagonisti del “modello TAV” che tanti guasti ha già inferto all’ambiente,
alla moralità pubblica, alla vita umana e alle casse dello Stato italiano, e
che invece di essere maledetto viene copiato pari pari per le opere pubbliche
dei prossimi dieci o venti anni. Opere mille volte annunciate e quasi mai
partite, ma finora servite per far girare quattrini, in gran parte inutili, in
faraonici progetti e studi di fattibilità che - si spera – mai vedranno la
luce. Uno per tutti: il Ponte sullo Stretto di Messina, icona vivente di una
classe dirigente rapace e cialtrona (e non parliamo soltanto della cosiddetta
“destra”: il libro è pieno di “progressisti” abbacinati dalle grandi opere
all’italiana, non si sa se per insipienza o per qualcosa di peggio: dalla
vecchia “sinistra ferroviaria” ai nuovi geni della “Calce e Martello”).
Gli anelli della catena che dalla
TAV conduce al Ponte della demenza passando per autostrade, viadotti, trafori,
ferrovie, “sistemi integrati” e altre amenità, i lettori li troveranno
addentrandosi nei vari capitoli del libro. Ciò che colpisce, nell’insieme, è
una constatazione: non è vero che Tangentopoli sia passata invano. Non è vero
che l’Italia non abbia fatto tesoro degli scandali di corruzione e malgoverno
scoperchiati da Mani Pulite. Anzi, ne ha fatto tesoro eccome. Ma alla rovescia.
Anziché corazzarsi con leggi moderne e regolamenti efficaci per impedire il
ripetersi di quelle malversazioni e per aiutare i “custodi” (dalla pubblica
amminisrazione alla magistratura) a stroncarli sul nascere e a punirli
severamente, le nostre classi dirigenti (anzi, digerenti) hanno fatto l’esatto
opposto: hanno reso più facile il riprodursi di Tangentopoli e più difficile
scoprirla e punirla. L’hanno minuziosamente studiata per trovare il modo di
rimetterla in piedi con la certezza di farla franca. E ci sono riusciti: la
corruzione continua come prima e più di prima, ma le indagini della
magistratura, pur colpendo questo o quell’episodio di marciume, faticano ad
estendersi all’intero sistema, come nel 1992-’93. E questo perché sono
scomparse le figure tipiche che consentono di configurare un reato: con una
serie di giochi di prestigio, si elimina il pubblico ufficiale privatizzando il
rapporto tra appaltante e appaltatore, e si riesce addirittura a nascondere
sotto il tappeto del bilancio dello Stato la montagna di debiti che il nuovo
sistema produrrà, anzi sta già producendo. Li vedremo riaffiorare tra qualche
anno, quando sarà troppo tardi e ai cittadini non resterà che metter mano al portafogli
per evitare la bancarotta dello Stato: allora la crisi modello Argentina
dell’Italia del ’92, quando il governo Amato col cappello in mano rastrellò 90
mila miliardi di tasse più il 7 per mille su ciascun conto in banca più i
frutti della svalutazione della lira, il tutto a spese dei contribuenti, ci
sembrerà Disneyland. Questo governo, col “project financing”, ha semplicemente
aggiornato il vecchio sistema del socializzare le perdite e privatizzare gli
utili: fa debiti a “babbo morto”, tanto a ripianarli provvederà chi verrà dopo.
Coi soldi nostri, s’intende. Il buco – secondo i calcoli di Cicconi – è già
oggi di decine di miliardi di Euro, ma, grazie all’abilità dei nostri
ministri-illusionisti, non si vede. Ancora.
Il sistema anti Mani Pulite e pro
Tangentopoli è perfetto: pubblico per i rischi e i quattrini, privato per i
profitti. Un sistema che istituzionalizza e legalizza i fondamenti della
corruzione. Taglia le mani a ogni controllo, amministrativo e giudiziario,
favorendo le grandi imprese e le grandi mafie che potranno subappaltare tutto a
trattativa privata, con una stretta di mano fra quattro mura, senza alcun
controllo. Fa lievitare i tempi e i costi. Non stimola gli investimenti
privati, anzi consente l’uso privato di risorse pubbliche, compreso il
patrimonio ambientale e culturale. E infine, con un colpo di bacchetta magica,
fa sparire enormi debiti che il governo sta accumulando , nascondendoli per un
po’ sui bilanci delle “Italie Spa” (che possono farsi prestare quanti quattrini
vogliono dalle banche, tanto garantisce lo Stato). Ricompariranno a fine
lavori. Roba da 1.500-2.300 milioni di Euro all’anno. In lire, dai 3 ai 5 mila
miliardi di nuove tasse che dovremo pagare, grazie alla bomba a orologeria
lasciata lì a ticchettare dal governo Berlusconi. Quello che aveva vinto le
elezioni promettendo “meno tasse per tutti”.
Se qualcuno si azzardasse a
ripetere una simile condotta in un’azienda privata, verrebbe ricoverato su due
piedi in una clinica psichiatrica e subito dopo interdetto dai suoi stessi soci
per impedirgli di fare altri danni. Ci vorrebbe un Cicconi armato dei suoi
dati, negli studi di Porta a porta, quando Berlusconi e Lunardi armati
di pennarello scorrazzano sulla cartina geografica disegnando e declamando
opere mirabolanti (anche un misterioso prolungamento della Transiberiana),
manco fossero sul tavolo del Monopoli. Ci vorrebbe Cicconi per documentare,
dati alla mano, che per le grandi opere (comprese quelle utili, e Dio sa quante
sono) non c’è una lira. Per raccontare lo scandaloso conflitto di interessi di
Lunardi e delle aziende di famiglia, ora intestate a parenti vari. Per
dimostrare che questo sistema farà lievitare vieppiù i costi e allungherà i
tempi già biblici dei lavori. Ma a Porta a porta Cicconi non c’è. C’è Bruno
Vespa con le sue comparse, che fanno sì con la testa. E, dall’altra parte dello
schermo, ci sono milioni di persone che si bevono tutto come oro colato. Così,
quando Lunardi se ne esce col suo “bisogna convivere con la mafia”, tutti
pensano a una gaffe. Ma è una gaffe o è un programma di governo?
MARCO
TRAVAGLIO