Luigi Bobbio
iI Mulino n.423, 1/2006

Discutibile e indiscussa
l'Alta Velocità alla prova della democrazia

E sorprendente vedere come le istituzioni facciano così fatica ad apprendere dall'esperienza.

Chi osserva le vicende dell'ultimo ventennio, troverà una serie infinita di casi in cui un'opera di «interesse generale», ma sgradevole per i territori che devono accoglierla, è stata ostacolata o addirittura bloccata definitivamente dalle opposizioni locali. Se vogliamo limitarci alle vicende più recenti e più note, è sufficiente ricordare la precipitosa ritirata del governo nazionale da Scanzano Ionico, dove il progetto di dare soluzione definitiva alla questione dei rifiuti nucleari fu sconfitta in un paio di settimane dalla sollevazione di un'intera regione; o la crisi dei rifiuti in Campania dove tutte le comunità impediscono da anni e con successo la costruzione di un inceneritore; oppure ancora gli ostacoli che l'impianto di rigassificazione del metano sta incontrando a Brindisi, dopo che un analogo impianto era stato rifiutato dieci anni fa dalla popolazione di Monfalcone. La storia di Davide contro Golia continua a ripetersi.


È evidente che le comunità locali hanno acquisito un'eccezionale capacità di difesa contro le intrusioni sgradite nei loro territori. Non riescono sempre a mobilitarsi e non sono sempre in grado di sbarrare la strada ai proponenti. Ma le probabilità che si manifesti una contrapposizione gravida di conseguenze sono notevolmente alte e un'istituzione responsabile e realista dovrebbe tenerne conto e comportarsi di conseguenza.

Il caso della Tav in valle di Susa è da questo punto di vista ancora più stupefacente. Qui infatti non si è verificata una sollevazione dell'ultima ora (come spesso è avvenuto altrove), ma esiste un movimento che si è andato formando e consolidando per quindici anni, da quando - nei primi anni Novanta - fu proposta la linea ad Alta Velocità Torino-Lione. In tutto questo tempo si sono tenuti nella valle migliala di incontri e di manifestazioni pubbliche. Si è discusso, si è studiato, si sono commissionate ricerche. La scritta «No Tav» è comparsa in ogni angolo della valle ed è diventata un emblema, un segno diriconoscimento e di identità, attorno a cui si sono raccolti i gruppi politici e sociali più diversi, le associazioni di ogni natura, i parroci e gli enti locali. Le due comunità montane, quella della Bassa Valle e quella dell'Alta Valle, hanno fatto da portavoce e da coordinatori.

È difficile trovare un movimento che assuma caratteristiche comunitarie altrettanto spiccate. Eppure il governo nazionale ha tentato egualmente la prova di forza. Ha cercato di aprire il cantiere per i sondaggi e il tunnel ausiliario di 10 km, ha mandato la polizia alle pendici del Rocciamelone e nei boschi di Venaus. Il movimento ha risposto con mobilitazioni obiettivamente grandiose prima nella valle e poi a Torino. E alla fine si è giunti a un prevedibile stallo: tre mesi di tregua per dar modo di compiere la valutazione di impatto ambientale del tunnel di Venaus e lasciar svolgere le Olimpiadi di Torino 2006 nella stessa valle di Susa. E la promessa di aprire un tavolo di confronto. Poi si vedrà.


Particolare contro generale


La vicenda della valle di Susa si presenta, prima di tutto, come un caso di resistenza locale contro un progetto di interesse generale. Siccome si tratta di una sindrome ricorrente, conviene capir bene quali sono i suoi tratti specifici.

I tradizionali meccanismi della democrazia fanno fatica a trattare questi tipi di conflitti. Esistono strumenti giuridici per la tutela delle minoranze linguistiche, religiose o politiche, ma non è chiaro che tipo di protezione debba essere offerta alle comunità locali contro progetti che servono alla generalità dei cittadini. Il principio di maggioranza, che è l'estremo rimedio per dirimere i conflitti politici, non può essere convenientemente adoperato in questi casi. E infatti il problema è: maggioranza di chi? deve prevalere la maggioranza dei cittadini che otterranno vantaggi dall'impianto? O la maggioranza dei cittadini che ne subiranno localmente l'impatto? È evidente che nel primo caso la risposta sarà favorevole e nel secondo contraria. Per questa via non se ne esce. Il conflitto territoriale, inoltre, non si conforma alla consueta distinzione tra destra e sinistra ed è quindi difficilmente gestibile dalla politica che invece è strutturata entro questo schema binario: nel caso della Tav, tutte le istituzioni sovralocali (il governo nazionale, la regione, il comune di Torino) sono a favore, tutte le istituzioni locali sono contro. A prescindere dal colore politico.


D'altra parte le due sfere, quella «generale» dei beneficiari e quella «particolare» dei potenziali danneggiati, sono chiaramente asimmetriche. I primi sono numerosi ma dispersi e i benefici che essi possono ricevere individualmente (ad esempio, da un inceneritore o da una linea ad Alta Velocità) sono modesti. I secondi sono viceversa concentrati sul territorio, ritengono di essere costretti a pagare un costo esorbitante e sono quindi in grado di mobilitarsi con relativa facilità (come ormai l'esperienza dovrebbe averci insegnato).


L'impasse dei meccanismi democratici deriva dal fatto che la democrazia si è innestata sul corpo dello stato nazionale e ne ha ereditato i valori di fondo. Fino a qualche decennio fa, in caso di conflitto tra interessi generali e interessi locali si dava per scontato che i primi dovessero prevalere sui secondi senza tanto discutere. La democrazia è nata con un forte pregiudizio antilocale. Hanno spinto in questa direzione sia le teorie giuspubblicistiche sulla supremazia dello stato, sia le vocazioni egualitarie dei grandi partiti del movimento operaio che hanno sempre combattuto quelle che chiamavano «le resistenze corporative». A cui si è aggiunta una certa dose di arroganza del potere, che con il tramonto della Prima Repubblica è perfino aumentata.


Oggi le sollevazioni dei territori che vengono chiamati a subire una servitù sono diventate sufficientemente forti da porre con nettezza un problema che nel passato era stato liquidato troppo sbrigativamente: ossia che è necessario trovare un equilibrio tra il generale e il particolare e che la ricerca, sicuramente faticosa e non sempre fruttuosa, di tale equilibrio sia un compito imprescindibile di una democrazia. Nella cultura politica italiana questa idea non è ancora passata. Si ha viceversa l'impressione che gli uomini di governo abbiano ancora la testa immersa nello spirito dello stato novecentesco, esclusivo interprete dell'interesse generale. Le proteste locali sono accolte con fastidio, come un impaccio egoistico che non merita attenzione e da cui ci si dovrebbe liberare al più presto. E si lanciano grida di allarme, che sono abbondantemente risuonate negli ultimi mesi: «In Italia non si riesce a fare più niente!», «Le grandi opere sono bloccate da anni!», «L'Italia perderà sempre più terreno rispetto agli altri Paesi!».


Queste affermazioni non sono del tutto vere (come mostrano i colossali cantieri dell'alta velocità che costeggiano le autostrade tra Torino e Milano e tra Milano e Napoli), ma sono soprattutto incredibilmente provinciali. Un libro di vent'anni fa cominciava così: «[In questo Paese] siamo giunti a un'impasse. Le amministrazioni pubbliche non riescono ad agire, anche quando tutti ritengono che qualcosa debba essere fatto [...] Qualsiasi sforzo per costruire prigioni, autostrade, centrali elettriche, case di cura per malati mentali o case popolari è osteggiato da coloro che risiedono nei dintorni. Dal 1975 non è stato costruito in questo Paese neanche un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi, anche se tutti ritengono che tali impianti siano necessari per evitare il fenomeno della discarica selvaggia». A differenza di quello che si potrebbe pensare, il Paese di cui si parla non è l'Italia, ma gli Stati Uniti. Il problema delle impasse create dalle opposizioni locali riguarda tutti i Paesi. Se mai in Italia ce ne siamo accorti con qualche decennio di ritardo.


La via dialogica


II libro americano, da cui è stata tratta la citazione, suggeriva - molto ragionevolmente - di superare l'impasse prendendo sul serio le ragioni degli oppositori e di costruire insieme a loro un processo dialogico e negoziale che permettesse di trovare soluzioni accettabili per tutti e di ridurre al minimo l'imposizione. Insomma, con le ragioni locali bisognava venire a patti.


Tutti gli stati contemporanei si sono, a poco a poco, attrezzati per seguire questa strada. Hanno inventato nuove procedure, hanno formato specialisti dell'interazione e della mediazione, hanno creato appositi forum, sedi di dibattito, arene deliberative. Ovviamente non hanno avuto sempre successo, ma talvolta sono riusciti a trovare qualche via d'uscita o, almeno, a evitare di esacerbare la contrapposizione. Espressioni come consensus building, stakeholder involvement, citizen's participation, partnership ecc. ricorrono nei documenti ufficiali di tutti i Paesi e compaiono da anni (inascoltate o incomprese) nei testi europei. Il vero ritardo dell'Italia non risiede nella virulenza anarchica dei suoi «campanili» (che è invece un problema comune a tutti), ma nell'incapacità di prendere atto di questo fenomeno e di adottare approcci conseguenti. Da noi le istituzioni continuano a comportarsi come se il problema non esistesse. «Ci provano» e, nella maggior parte dei casi, finiscono per sbattere la testa contro il muro.


Quando, quindici anni fa, la Francia (e stiamo parlando della Francia giacobina e tecnocratica, patria indiscussa de l’intérét general, trovò di fronte un'opposizione del tutto simile e altrettanto ostinata da parte dei vignerons della valle del Rodano contro la linea del Tgv Mediterranee, cercò almeno di trarne una lezione. E nel 1995 fu varata una legge che imponeva di sottoporre tutte le opere infrastrutturali di una certa importanza a un débat public preventivo in cui fosse garantito l'ascolto di tutti i soggetti interessati ed in cui la prima questione da discutere sarebbe stata:

«L'opera va fatta? Esistono alternative?». Questa procedura non è esente da difetti e inconvenienti, come molti osservatori hanno messo in evidenza, ma è comunque evidente che in Italia siamo distanti anni luce. Anzi da noi, qualche anno dopo, di fronte al medesimo problema, è stata compiuta, con la «legge obiettivo», la scelta diametralmente opposta: quella di troncare sul nascere qualsiasi dibattito, conferendo pieni poteri alle autorità centrali e tappando la bocca ai governi locali. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ma non sarebbe corretto attribuire troppe responsabilità al governo Berlusconi e il suo ministro Lunardi. Il male è molto più antico. La legge obiettivo è del 2001. li problema della Tav in valle di Susa marcisce dai primi anni Novanta.


Chi deve decidere


L'annosa disattenzione (disprezzo?) per le ragioni degli oppositori locali si basa su due convinzioni. La prima è che a un piccolo territorio non può essere consentito di tenere in scacco una nazione (o addirittura un continente). Da cui la domanda retorica, ampiamente circolata in questi mesi: «Chi deve decidere su un'opera di interesse nazionale o europeo?». Ma la domanda è sbagliata. I problemi che investono contemporaneamente più livelli territoriali non possono essere trattati con un taglio netto. Una linea ad Alta Velocità assume caratteristiche e significati diversi a seconda della scala alla quale la si osserva. Su scala europea essa si presenta come un corridoio capace di connettere rapidamente l'intero continente; su scala regionale o metropolitana appare cóme un'opportunità per rafforzare la competitivita delle rispettive aree rispetto ad altre regioni o altre città del continente; su scala locale (in particolare per i territori che sono attraversati ma non serviti) rappresenta un peso gravoso e ingiusto. A ogni scala si possono vedere problemi e soluzioni, che alle altre scale non sono percepibili. I geografi parlano, in proposito, di un approccio «transcalare», quando un medesimo problema viene osservato contemporaneamente su scale geografiche diverse e viene affrontato combinando i punti di vista che scaturiscono dalle diverse osservazioni. In un contesto transcalare non esiste nessuno che possa arrogarsi il titolo di «decisore di ultima istanza». Il processo decisionale non può che essere costituito da un continuo andirivieni tra i livelli territoriali che permetta, gradatamente, di tentare una conciliazione tra gli interessi generali (ma spesso troppo astratti) dei governi di rango superiore e gli interessi concreti (ma spesso particolaristici) dei governi di rango inferiore. La costruzione della soluzione dovrebbe essere il frutto di meccanismi ben oliati di governance multilivello: sia per prevenire i conflitti che tendono a esplodere quando gli attori locali si trovano di fronte al fatto compiuto; sia per migliorare la qualità dell'opera.

In valle di Susa questo paziente raccordo tra le scale territoriali e tra i loro rappresentanti non c'è stato. Un vero dialogo non è mai decollato. Certo, i contatti non sono mancati, ma sono stati sporadici e non sistematici, non hanno coinvolto tutti gli oppositori, sono stati prevalentemente imbrigliati entro i limiti angusti delle procedure formali, non hanno affrontato apertamente tutte le questioni sul tappeto e soprattutto sono stati terribilmente tardivi. E gradatamente le iniziali proteste di alcuni gruppi si sono trasformate in una sollevazione corale dell'intera comunità. La sensazione di non essere presi in considerazione e di non essere ascoltati è la molla più potente per la costruzione di un'identità che contrappone «noi» a «loro».


Un esempio significativo: all'inizio era stato previsto che la linea corresse all'aperto, nel fondovalle, fino all'imbocco del tunnel di base. Di fronte alle proteste che montavano, si decise di spostare la linea verso la montagna, facendola passare quasi completamente in galleria. Fu una scelta che comportò un'enorme lievitazione dei costi. Eppure fu presa del tutto unilateralmente. Non ci fu una vera trattativa con le parti locali. Il nuovo progetto non fu il frutto di un accordo esplicito, come se non si dovesse ammettere che gli attori locali potessero essere considerati come partner alla pari. Fu risolto un problema pratico (togliere dalla vista la linea), ma non fu risolto un problema simbolico altrettanto e forse più importante (riconoscere gli attori locali come interlocutori a pieno titolo). E nello stesso tempo, non si colse l'occasione per vincolare gli oppositori a un patto.

 

Paure irrazionali?


I promotori delle grandi opere sono indotti a trascurare le proteste locali per una seconda ragione: perché sostengono che esse sono basate su paure irrazionali fomentate da agitatori senza scrupoli. Questa obiezione contiene sempre qualche elemento di verità, ma non coglie il punto. Le comunità che si sentono sotto tiro tendono a elaborare una visione catastrofica della minaccia. Inalberare cartelli con la scritta «Vogliamo vivere», come succede in valle di Susa, suona un po' sinistro perché lascia pensare che la Tav seminerebbe morte. E non è certo uno spettacolo piacevole vedere all'opera propagandisti che diffondono il terrore tra la popolazione facendo balenare una sequenza spaventosa di rischi letali. E tuttavia questi eccessi sono un modo per difendersi da un'intrusione che può alterare in profondità il proprio stile di vita e degradare il proprio habitat. Dietro le esagerazioni c'è una richiesta di riconoscimento della dignità delle persone e dei luoghi. La paura non riguarda soltanto specifici rischi per la salute e l'ambiente. È una reazione più profonda contro gli stranieri che osano irrompere in casa propria con colate di cemento, perforazioni nelle montagne o impianti inquietanti, in nome di una modernità che serve solo agli «altri». Capire questa cosa semplicissima sarebbe il primo compito di qualsiasi istituzione pubblica degna di questo nome.


Ma siamo poi sicuri che le paure siano irrazionali e infondate? Fino a che punto? In realtà le conseguenze di queste grandi opere sono sempre circondate da innumerevoli incertezze. E’ difficile prevedere quali guasti potrà provocare un cantiere destinato a durare oltre un decennio o uno scavo che si insinua per 50 chilometri nel cuore della montagna. Nessuno può dare assicurazioni in proposito. E se le dà, è destinato a non essere creduto. Dobbiamo renderci conto che l'incertezza (qualcuno dice: l'incertezza radicale) tende sempre di più ad avvolgere gli impatti delle maggiori imprese tecnologiche, soprattutto nel lungo periodo (e nel caso della Tav il periodo è veramente lunghissimo). Per la maggior parte dei rischi non si può pensare di raggiungere una valutazione obiettiva. I rischi sono distribuiti in modo diseguale tra la popolazione, variano a seconda dei contesti sociali o ambientali e sono soprattutto percepiti in modo diverso dai vari gruppi sociali. Chi ha riflettuto seriamente su questa questione cruciale è arrivato alla conclusione che la stima del rischio non può essere delegata agli specialisti, ma deve essere elaborata in modo consensuale con i soggetti interessati, attraverso un sapiente intreccio tra i saperi scientifici e i saperi profani. È questa la via tracciata dai molteplici esperimenti di Participatory Technology Assessment, promossi dalla stessa Unione europea.


Nulla di tutto ciò è stato neanche lontanamente immaginato nella vicenda della Tav in valle di Susa. I promotori hanno ovviamente dichiarato, come sempre in questi casi, la loro piena disponibilità a eliminare qualsiasi rischio per la salute e per l'ambiente. Ma il problema è come trovare un accordo su quali sono i rischi e su come possono essere affrontati. È molto probabile che su ogni singola questione sia possibile trovare soluzioni ragionevoli o accordarsi su specifiche garanzie, ma questo richiede un lavoro lungo e paziente che non può essere aggirato.


L'interesse generale è proprio così generale?


Finora ho considerato le proteste della valle di Susa come un'azione localistica di difesa del proprio territorio. Ma questa è solo una parte della storia. Le comunità locali che si trovano impegnate in simili battaglie tendono inevitabilmente ad allargare il loro orizzonte, anche per sottrarsi all'accusa di egoismo e di particolarismo. Si assiste insomma a quel salto di qualità che Jacques Lolive - studiando le proteste della valle del Rodano contro l'alta velocità - ha definito come «montée en généralité». Nel caso della valle di Susa la «risalita» è consistita nell'interrogarsi se l'opera proposta corrispondesse veramente all'interesse generale. La maggioranza del movimento non ha messo in discussione l'assunto di base dei proponenti, ossia che sia necessario un rafforzamento dei collegamenti ferroviari tra Italia e Francia, anche al fine di spostare le merci dalla gomma al ferro. Ma ha esaminato la validità della soluzione proposta ed è andato alla ricerca di soluzioni alternative. In dieci anni di lavoro il movimento ha avuto tutto il tempo per documentarsi, studiare e commissionare ricerche. E i risultati raggiunti sono indubbiamente rilevanti, sia per quanto riguarda il rapporto tra i costi (enormi) e i benefici (discutibili), sia per quanto riguarda le previsioni del traffico merci negli anni a venire, sia infine sull'effettiva possibilità (o volontà) di trasferire i Tir sulla strada ferrata. Infine, uno studio effettuato da docenti del Politecnico di Torino, per conto del comitato No Tav, ha mostrato che esiste una soluzione alternativa: l'adeguamento della linea ferroviaria esistente. Costerebbe infinitamente meno e offrirebbe prestazioni (a loro dire) accettabili.


La stessa esistenza di queste obiezioni, che appaiono a prima vista ben documentate e argomentate, pone un problema di enorme rilievo: si ha l'impressione che ancora una volta in Italia sia stata decisa un'opera gigantesca senza un vero e proprio dibattito pubblico. E naturalmente possibile che le critiche sollevate dal movimento No Tav siano fragili o infondate. Ma è strano che in questi anni non si sìa svolto un confronto approfondito su questi temi. E la cosa più grave è che tale dibattito non si è aperto nemmeno ora, in seguito alla crisi degli ultimi mesi. Mentre gli oppositori hanno formulato le loro critiche e le loro proposte, le istituzioni proponenti hanno risposto con slogan, sempre più vuoti, sull'Europa, la Modernità, la Competizione, ma non si sono sentite in dovere di entrare nel merito e di controbattere gli argomenti con argomenti.


E neppure di fornire le informazioni essenziali. Basta un breve viaggio tra i siti delle organizzazioni proponenti. Il sito del comitato transpadano, la principale lobby pro-Tav (www.transpadana.org), si limita a presentare brevi affermazioni propagandistiche e riporta solo gli articoli di giornale favorevoli. Il sito della Ltf, la società che progetta e gestisce la tratta internazionale, ossia il tunnel di base (www.itf-sas.com), fornisce un'informazione molto superficiale, accenna al fatto che sono stati svolti studi ambientali, finanziari e trasportistici, ma non li mette a disposizione del pubblico. Il sito della società Tav (www.tav.it) rinvia al sito della Ltf, per quanto riguarda la linea Torino-Lione. E infine il sito di Italferr (www.italferr.it), la società che sta progettando la tratta nazionale (dai dintorni dì Torino fino al tunnel di Bussoleno), non contiene neanche un cenno al progetto. C'è da domandarsi: è mai possibile che su un'opera di queste dimensioni non venga fornita al pubblico nessuna informazione rilevante? Che idea hanno della loro missione pubblica questi operatori che non si curano di controbattere alle critiche, non aprono i loro cassetti, non si curano di offrire un minimo di trasparenza?


E interessante notare come in questo modo il movimento della valle di Susa finisca per ritorcere sui suoi avversari l'accusa di irrazionalità. Chiede a gran voce l'applicazione di strumenti tipici della scelta razionale come l'analisi costi e benefici, chiede che siano documentate le previsioni sul traffico merci e sui rendimenti finanziari dell'opera. C'è probabilmente, anche in questo caso, un eccesso di fiducia nelle procedure di analisi razionale. Albert Hirschman ci ha insegnato che quando si intraprendono grandi progetti può essere opportuno l'intervento di una mano che nasconda almeno in parte le conseguenze future, perché altrimenti rimarremmo perennemente bloccati. Se nel 1857 Cavour avesse calcolato attentamente i costi e i benefici del traforo del Frejus (per quei tempi un'impresa assai più azzardata di quella attuale), probabilmente non avrebbe autorizzato l'ingegner Sommeìller ad avviare gli scavi. In un'opera come la Torino-Lione, destinata a durare per qualche secolo, è inevitabile qualche elemento di scommessa. E spiacevole vedere come la razionalità sia brandita strumentalmente da una parte e dall'altra per mettere gli awer-sari con le spalle al muro. Sarebbe meglio se entrambi i contendenti provassero a ragionare insieme sia sulla fondatezza delle paure che sulla plausibilità dell'opera.


Prospettive? Per ora, poche


Succederà? Temo di no. La crisi è scoppiata - come sempre - troppo tardi. Il progetto è andato ormai molto avanti, ha consumato troppe energie e troppe risorse (a un certo punto gli ingegneri hanno preso il posto dei politici e hanno fatto la loro strada). Ci sono poi gli impegni internazionali, soprattutto con la Francia che ha già avviato i primi sondaggi e che potrebbe tirarsi indietro, dal momento che è sempre apparsa più titubante dell'Italia sulla necessità della Torino-Lione. A sua volta anche il movimento della valle dì Susa si è spinto troppo avanti nella costruzione di una identità antagonista al progetto. Tornare indietro è diffìcile per entrambe le parti.


Se immaginiamo che i due contendenti siano attori razionali che valutano attentamente i costi e i benefìci delle loro azioni è probabile che lo scontro continuerà. Entrambi sono infatti persuasi di poter vincere la partita, senza dover pagare costi enormi. Il movimento No Tav può sperare ragionevolmente di impedire l'apertura dei cantieri ancora per molti anni, visti i precedenti di Scanzano Ionico e delle altre mille vicende analoghe. Può avere dei dubbi sulla tenuta della propria mobilitazione nel tempo, ma finora la mobilitazione è stata più una risorsa (identificante) che un costo. E può contare su una simpatia diffusa in giro per l'Italia, tra tutti coloro che si sentono vittime di prepotenze da parte dei poteri forti, che temono gli effetti devastanti dei flussi globalizzati; è più facile tifare per Davide che per Golia. II movimento sa infine che un'opera di questa portata non può reggere a continue azioni di disturbo e che nessun cantiere può funzionare per anni solo perché protetto da cordoni di polizia.


Dall'altra parte anche i promotori sono persuasi di poter vincere su tutta la linea senza sottoporsi a una (incerta e umiliante) rinegoziazione del progetto. Sanno di avere alle spalle interessi potenti, possono mettere in campo simboli di grande prestigio (l'Europa, il Progresso, la Velocità, la Modernizzazione) e possono contare su un appoggio totale e bipartisan della classe politica. «La Tav sì farà» (sottinteso così com'è stata progettata finora), hanno dichiarato con ostentata sicurezza sia Berlusconi e Lunardi, sia la presidente Bresso e il sindaco Chiamparino. Sono convinti che i rapporti di forza giochino nettamente a loro favore. Pensano che, alla fine, la fionda di Davide risulterà impotente di fronte alla mole di Golìa.


È evidente che uno dei due contendenti si sbaglia. Ma oggi è difficile prevedere chi. Questo gioco a somma zero potrà evolvere soltanto quando i contendenti cominceranno a contare le loro perdite e comprenderanno di trovarsi in una situazione di interdipendenza. Potrebbe essere di aiuto l'intervento di un attore super partes, di un deus ex machina, che riesca a far ragionare entrambe le parti sulle condizioni in cui si trovano e prepari il terreno per un confronto. Ma non si vede chi potrebbe svolgere questo ruolo, dal momento che tutte le istituzioni (compresa l'Unione europea) hanno finito per schierarsi nella contesa.

La storia della Tav in valle di Susa è un esempio assolutamente emblematico del punto morto a cui conduce un certo modo, arrogante e decisionista, di pensare alle grandi opere pubbliche. Se una parte, anche minoritaria, della classe dirigente italiana riuscisse a riflettere seriamente su questo aspetto sarebbe un enorme passo avanti. Non servirebbe forse a sciogliere il nodo della valle di Susa, che appare in questo momento terribilmente aggrovigliato, ma aiuterebbe almeno il Paese ad affrontare queste scelte in modo più mansueto e paziente, e a progettare processi decisionali più aperti all'ascolto e meno chiusi in una improbabile cittadella tecnocratica.