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Sull'ultima sentenza nel maxi-processo No Tav

di Claudio Novaro 26-04-2021

 

Ci sono voluti dieci anni perché un autorità giudiziaria riconoscesse, almeno in parte, quello che era capitato nelle giornate del 27 giugno e del 3 luglio 2011 in Val di Susa.

 

Vale la pena di riassumere brevemente le motivazioni, depositate pochi giorni fa, con cui la prima sezione della corte d’appello di Torino, quale giudice di rinvio dopo l’annullamento operato dalla cassazione, si è profondamente discostata dalle valutazioni contenute  nelle sentenze emesse in primo e secondo grado.

 

I giudici di rinvio hanno, anzitutto, ridotto le condanne inflitte, eccessive e sproporzionate, riportandole nell’alveo delle tariffe normalmente usate nei processi per resistenza a pubblico ufficiale.

 

In secondo luogo, hanno censurato l’utilizzo abnorme del concorso di persone nel reato, specie per quanto concerne il reato di lesioni contro i poliziotti, fatto negli altri gradi di giudizio, riaffermando un principio lineare e consolidato nella giurisprudenza di cassazione.

 

“Contrariamente a quanto sostenuto nelle due sentenze di merito che hanno proceduto la presente – si legge nella motivazione – la sola presenza degli imputati sui luoghi, in differenti momenti e fasi degli scontri, non può di per sé, pertanto, fondare una responsabilità collettiva per tutto quanto avvenne nella medesima giornata, mancando del tutto il necessario accertamento di uno specifico contributo di causalità efficiente.. È in sostanza necessario che sia provato per ciascun imputato che la sua presenza sui luoghi non sia stata inerte o meramente adesiva, ma che il singolo con la sua condotta abbia dato un consapevole contributo causale rafforzativo o agevolatore alla commissione del fatto-reato”.

 

Ma soprattutto i giudici hanno ricostruito il quadro degli avvenimenti in maniera radicalmente diversa rispetto al passato.

 

Per restare solo ad alcuni dei passaggi più rilevanti del provvedimento, la corte ha  riconosciuto che gli scontri avvenuti nella zona dell’area archeologica non furono preordinati, non furono ispirati e condotti, come sosteneva la Digos, da un manipolo di 300 anarchici, assiepati nei boschi della Clarea fin dalle prime ore del mattino, confermando, invece, che nella zona vi erano migliaia di persone (“manifestanti di varia composizione, età ed estrazione sociale”) che “all’altezza del bivio per Ramat si allontanarono dal corteo principale… e preferirono raggiungere l’area del Museo Archeologico attraverso i sentieri nei ‘boschi”.

 

In secondo luogo, la corte ha stigmatizzato le condotte tenute da molti “appartenenti alle forze di pubblica sicurezza”, che compirono “atti illegittimi in quanto oggettivamente contrari .. alle generali regole di ingaggio”. In particolare, “è emerso incontrovertibilmente che alcuni appartenenti alle forze di polizia presenti nel teatro degli scontri avvenuti il 3.7.2011, senza giustificazione alcuna, adottarono condotte contrarie non solo ai propri doveri e funzioni ma anche in alcuni casi altamente pericolose, scagliando anch’essi sassi nei confronti dei manifestanti che li bersagliavano ed esplodendo ordigni lacrimogeni con un’ angolazione insufficiente, ovvero con lanci tesi invece che a parabola , idonei in quanto tali a produrre non l’ effetto di dissuasione che è insito nell’utilizzo di tale strumento di contrasto, ma il pericolo che i bossoli contenenti gas lacrimogeno colpissero direttamente quali proiettili alcuni dei manifestanti”.

 

Ciò avvenne sia nell’area delle vasche idriche – dove “le Forze dell’Ordine lanciarono lacrimogeni con modalità contrarie alle direttive ricevute e almeno nella fase iniziale senza che ve ne fosse la concreta necessità …. prima che si verificassero concreti atti di violenza da parte dei manifestanti ivi presenti” -, sia nell’area della centrale Idroelettrica – tra l’altro con “lacrimogeni diretti verso zone ove non erano presenti manifestanti violenti, come nei pressi della spiaggetta sulla Dora e del campeggio”.

 

Quanto alle modalità dell’arresto di alcuni manifestati (quella che il movimento definì la cd, operazione Hunter) “la visione .. dei filmati dimostra inequivocabilmente che sia S. sia N. all’atto dell’arresto furono vittime di gesti di violenza fisica da parte degli operanti, che si ritengono quantomeno disdicevoli, immotivati ed esorbitanti rispetto alla minima violenza consentita ad un pubblico ufficiale per vincere la resistenza di chi venga arrestato o fermato”. E, invece, come tutti sappiamo, quelle violenze vennero clamorosamente archiviate dalla magistratura torinese.

 

Non tutto convince nella sentenza, come è naturale che sia.

 

Pretendere dai processi una puntuale e approfondita ricostruzione dell’intero quadro degli avvenimenti – e, nel loro ambito, del ruolo concretamente avuto da tutte le agenzie istituzionali preposte all’organizzazione della risposta repressiva – significa caricare sulla giustizia penale compiti indebiti, che non le appartengono, e che soltanto in sede storica potranno essere compiutamente affrontati e definiti.

 

Se è fisiologico che i giudici dei diversi gradi di giudizio non la pensino allo stesso modo, non lo è l’abissale differenza di valutazioni a partire dallo stesso materiale probatorio.

 

Si può, in prima approssimazione, provare ad individuare alcuni elementi di fondo che diano conto di tale anomalia.

 

Il primo rimanda al ruolo della polizia nella fase di ricostruzione degli avvenimenti e dell’impianto complessivo delle indagini, un ruolo che è stato definito di monopolio interpretativo delle condotte di rilevo penale, nel senso che è la polizia che traccia il quadro dell’accaduto, che seleziona le condotte e gli imputati nei cui confronti avviare il processo, ponendo,  così, un’ipoteca fondamentale sul quadro storico degli avvenimenti. Tutto ciò in genere vale solo nel corso delle indagini preliminari e, invece, nel nostro caso, proprio per il rilevo avuto dalla fase cautelare, ha pesantemente influenzato e condizionato la decifrazione dell’accaduto da parte dei giudici.

 

Ciò è stato possibile anche in forza del ruolo dei principali organi di informazione, che ha accompagnato lo svolgimento del primo processo e che ha costituito una sponda importante nella  costruzione mediatica della pericolosità e dell’allarme sociale del movimento No Tav.

 

I giornali hanno spesso valorizzando solo le iniziative violente dei manifestanti, evitando di collocarle nel contesto di appartenenza, di soffermarsi sulle motivazioni che le avevano determinate, fornendo una lettura che, operando una continua suddivisione in manifestanti buoni e manifestanti cattivi, eliminava le contemporanee o precedenti azioni delle forze dell’ordine. Più in particolare, hanno avallato quella vergognosa cornice comunicativa che derubricava a mere condotte criminali senza connotazioni ideali o politiche  i comportamenti degli imputati, che dava credito a presunti pericoli l’incolumità di testi d’accusa, che sosteneva ad oltranza l’impianto accusatorio, nonostante le plurime smentite costituite dai filmati della giornata.

 

Poi vi è stata la gestione concreta dell’istruttoria dibattimentale. Tutti ricordiamo la patetica rappresentazione di un teste sentito dietro il paravento, come in un processo di mafia, o il tono sprezzante usato da alcuni PM con i testi della difesa e anche con qualche avvocato, le domande non ammesse dal tribunale in sede di contro-esame dei testi d’accusa, attraverso un’interpretazione del tutto personale del codice di rito.

 

Vi è poi un dato legato alla cultura complessiva dei giudici, specie di quelli di primo grado.

 

Il giudice nel processo penale deve anzitutto avere consapevolezza del carattere  probabilistico e, dunque, relativo e parziale, della verità giudiziaria. Ogni arroganza cognitiva va messa da parte  a favore di una prospettiva  che valorizzi il dubbio, come strumento e criterio di valutazione delle prove e delle ipotesi sul fatto.

 

Definire imbarazzanti, come ha fatto il tribunale, le argomentazioni difensive, alcune delle quali poi accolte dalla cassazione, segnala non solo un atteggiamento di supponenza, ma soprattutto un difetto nella capacità di confronto con le tesi offerte in prova dalle diverse parti processuali.

 

Parallelamente, classificare come inattendibili, in un solo blocco, tutti i testi indicati dalle difese degli imputati, poi invece rivalutati nella sentenza del giudice di rinvio, senza peritarsi nemmeno di affrontare nel dettaglio le loro dichiarazioni, dimostra un pregiudizio di fondo e un attitudine lontana anni luce dall’ascolto delle ragioni delle parti, da quell’atteggiamento laico e imparziale di ricerca della verità che costituisce uno dei fondamenti dell’attività giurisdizionale.

 

C’è infine alla base di tutto il misconoscimento del conflitto sociale, analizzato solo sulla base delle esigenze di controllo e di ordine pubblico.

 

È la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del ruolo centrale dell’ideologia neoliberista e delle sue narrazioni nella società italiana, con un colossale ribaltamento di senso che ha scavato in questi anni nella coscienza collettiva del paese: una narrazione dove non sono più previste forme di azione collettiva ma, come ha scritto Ulrich Beck, soluzioni biografiche per problemi sistemici, dove non ci possono alternative all’egemonia del libero mercato e alle sue decisioni sulle grandi opere, dove la ribellione, la protesta vengono immediatamente considerate delle sfide alla sicurezza pubblica, una sicurezza scandita nel nostro caso da decine di ordinanze prefettizie e dalla militarizzazione di una porzione del territorio alpino.