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Inchiesta San Michele, gli affari criminali

di Giuseppe Legato da Narcomafie del 15-09-2015
http://www.narcomafie.it/2015/09/15/inchiesta-san-michele-gli-affari-criminali/

 

È cosi che nel mirino della consorteria finisce la Tav, Alta Velocità Torino-Lione. Un boccone milionario nel quale bisogna entrare a tutti i costi. Già, ma come? Con gente fidata che risponda anche agli interessi del sodalizio (“pur mantenendo una certa autonomia e traendone personale profitto”), che permetta di entrare nel circuito degli affari, senza esporsi in prima persona.

L’identikit corrisponderebbe – secondo i pm e il Ros – a Giovanni Toro, 47 anni, imprenditore, arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa (nel processo difeso dall’avvocato Benito Capellupo). Un tipo sveglio e risoluto (“con un ruolo centrale in seno alle dinamiche di spartizione dei lavori ad  aziende che fanno riferimento agli indagati”, scrive il gip), che saprebbe anche fare bene il suo mestiere se non fosse che si serve di affiliati  (e dei loro metodi mafiosi) per incrementare il giro di lavoro o mantenere l’esistente.
E tra le cose da mantenere a tutti i costi, c’è una cava al confine tra i Comuni di Sant’Ambrogio e Chiusa San Michele (parti civili al processo insieme al Comune di Rivoli).

Giovanni Toro, nel 2011, è locatario di una cava con annesso impianto di produzione di bitume di proprietà della società “Giafra Immobiliare srl”. In particolare Toro, reale amministratore della società “Toro srl” della quale è formalmente amministratore unico la sorella Nadia, conduceva in locazione il sito in forza di contratto con la “GiaFra Immobiliare”, ed aveva a sua volta effettuato la cessione di ramo d’azienda in comodato alla “Cst. srl”, sempre a lui riconducibile.

Gli affari vanno bene. Se non fosse che a maggio del 2011 sorgono dei problemi tra l’imprenditore e i due proprietari Francesco Butano e Claudio Ravizza “conseguenti – si legge nell’ordinanza – al mancato pagamento dei canoni d’affitto mensile”. I due si rivolgono al Tribunale Civile e il procedimento si conclude con un’ordinanza di sfratto. Lo scenario è pericoloso: Toro si rivolge a Gregorio Sisca che secondo la procura è un affiliato. Nella vicenda sarebbe stato coinvolto anche “Maruzzo” Audia “interessato a reperire, per conto del sodalizio criminoso, un canale d’infiltrazione nei lavori di realizzazione della Tav”. Iniziano le minacce.

Ma perché tutto questo interesse? Ancora il gip Elisabetta Chinaglia riannoda i fili: “Le intenzioni degli indagati vertevano sull’utilizzo della cava come deposito di rifiuti speciali per le ditte amiche che avrebbero lavorato nella TAV nonché come luogo per la frantumazione dei rifiuti già presenti sul posto o comunque acquisiti, da reimpiegare (senza alcun controllo e bonifica, oltre che in assenza di autorizzazione) nei lavori della Tav”. I carabinieri in un sopralluogo del 6 marzo 2013 troveranno “numerosi fusti metallici contenenti materiale presumibilmente bituminoso e rottami di essi non bonificati, traversine ferroviarie dismesse in cumuli, cumuli di bancali, parti metalliche, rottami ferrosi di varia provenienza. cassoni in evidente stato di abbandono, sversamenti sul nudo terreno di colate di bitume, carcasse di automezzi e parti di esse”. Un cimitero di veleni e una cava preziosa da continuare a gestire. Si parte dunque con le minacce di Sisca a Butano: «Te lo dico chiaramente e te lo ripeto davanti ai carabinieri. Vedi che io lì sopra ho messo dei soldi (circa 75 mila euro) e dobbiamo lavorare. Stai attento. L’hai capito il messaggio?». Il messaggio fu capito e le pressioni  “esercitate ebbero risultato positivo, tanto che la Giafra stipulava con la Toro srl nuovo contratto di locazione nell’ottobre 2011”. In uno scenario del genere ben si comprende la frase di Toro a Sisca: «E ricordati che ce la mangiamo io e te la torta dell’Alta velocità».  Ancora più inquietante un’altra frase di Sisca: «Io l’ho vista la Tav, l’ho vista a Settimo la Tav cosa porta». Toro la Tav la vide davvero avendo partecipato all’asfaltatura del tratto di cantiere di Chiomonte che serviva all’ingresso dei mezzi di polizia. Non ci sono triangolazioni telefoniche con i boss su questo lavoro (ma con l’indagato Ferdinando Lazzaro, imprenditore), però i rapporti tra Toro e il sodalizio già allora – per il Ros – erano provati.

L’aeroporto, la neve e i camion dei calabresi. Non sarebbe la prima volta che Toro agevola – secondo l’accusa – ditte di presunti affiliati e affiliati alla ’ndrangheta per entrare in appalti pubblici. Era già successo con le operazioni (e il relativo cantiere) di sgombero neve all’aeroporto Pertini di Caselle.

Già perché Toro era già finito nella bufera precedentemente per una turbativa d’asta insieme a un dirigente Sagat. L’accusa era di truffa e corruzione per la quale l’imprenditore “patteggiò 3 anni e 3 mesi”.

Quella storia però oggi va quantomeno aggiornata. Perché, allora, di ’ndrangheta non ne parlò nessuno e invece a quell’appalto erano interessati molti degli odierni imputati di 416 bis. “Per 12 anni – annota il gip – Toro, attraverso un rapporto clientelare instaurato con Franco Zaccone, dirigente Sagat. riusciva ad aggiudicarsi la commessa dal 2002 in poi. L’imprenditore, oltre ad impiegare i propri mezzi, come evidenziato da numerose conversazioni telefoniche, affidava una parte dei lavori in argomento a ditte di trasporto reperite da Mario Audia, Gregorio Sisca e Roberto Greco”, che senza esporsi in prima persona segnalavano a Toro ditte da impiegare nell’appalto, a loro volta coinvolte in tanti altri cantieri di Toro (sic!).  Chissà per quanti anni è andata avanti cosi.

A giugno 2012 si deve procedere al rinnovo dell’appalto per una durata biennale. È un bando che viene gestito in procedura negoziata. Toro vuole vincere e per farlo, insieme ad altri personaggi ricorre a metodi “per scoraggiare altri concorrenti tra cui la minaccia e il ricatto di inviare materiale compromettente ai titolari” di alcuni competitor. In un altro caso incita il complice “a proporre quello delle fogne, altri lavori, basta che me lo levi dai  coglioni…che non presenti sta cosa (questa offerta ndr)”. Il primo agosto Sagat apre le buste e – incredibile, ma vero – c’è solo l’offerta di Toro. Il problema è che è troppo alta, i costi sono cresciuti a dismisura rispetto all’anno precedente, Sagat si lamenta, blocca tutto e riapre il bando. Lo vince un’altra ditta. Toro è nei guai. Va su tutte le furie. Al telefono si sfoga: «Ma si, ma si rende conto che c’erano i camion.., c’erano i camion dei calabresi… con me!… ma adesso che gli dico che a questi qua che non.. che non girano… ma ti rendi conto che cazzo si è messo a fare sto scemo?!? Che gioco di merda ha fatto?».

Il gip annota: “Con il termine calabresi indicava proprio la compagine criminale facente capo a Mario Audia”. Prova ne è “che nell’ottobre 2012 l’imprenditore esplicitamente manifestava con la moglie a chi si riferiva quando faceva richiamo ai calabresi, parlando a proposito delle richieste (provenienti da Audia e Greco) di pagamento di fatture nei confronti di una delle ditte (intestate peraltro a persone con precedenti penali per associazione a delinquere, riciclaggio, ricettazione etc..) che aveva svolto attività per Toro nella precedente stagione per sgombero neve”. Quando il Ros e la procura sentono a verbale le persone costrette a ritirarsi dal bando, arrivano – all’inizio – dichiarazioni “reticenti” (salvo poi ampie conferme): “Questo – si legge nell’ordinanza – è avvenuto per i tentativi di Toro di inquinare le loro dichiarazioni registrate in un colloquio intercettato in carcere con il fratello”.

Mirante, il boss in Porche. Se Toro è un concorrente esterno e quindi un imprenditore che pur agendo per tornaconto personale è consapevole di contribuire al consolidamento della ’ndrina di San Mauro Marchesato, Nicola Mirante è – secondo la procura – un affiliato vero e proprio.  Ha 48 anni, viaggia a bordo di un Porche Cayenne. Mirante (nel processo difeso dall’avvocatoAlberto Ventrini) è imprenditore nel campo delle costruzioni, amministratore unico delle società.

“Gruppo Rea sri” e Gruppo Rea.M sri”. Una mente fine, un uomo intelligente e molto che disegna grandi investimenti e cerca rapporti politici (a lungo ha cercato di creare un rapporto con Alberto Goffi, ex consigliere regionale Udc, comprando finanche 200 copie del suo libro sulle vessazioni di Equitalia edito nel 2011) per aumentare il suo raggio d’azione. Della sua vicinanza alla cosca Greco ne aveva già parlato il collaboratore di giustizia Christian Talluto, ma ciò che emerge dall’ordinanza sembra molto di più (e infatti è imputato di appartenere all’associazione mafiosa anche se senza gradi di rilievo, ma come partecipe). Ciò che colpisce è la dinamicità di Mirante e i suoi metodi che uniscono approcci moderni d’impresa a minacce in perfetto stile mafioso. Per saperne di più basta leggere la storia del suo ex socio nel gruppo “Rea”, tale Biagio Impellizzeri, una vittima secondo i giudici.

I fatti avvengono quando il gruppo Rea acquisisce lavori dalla società “Edilrivoli”, diretta da Fabrizio Tosatto. Si tratta di un maxi cantiere da 9,6  milioni di euro in corso Susa a Rivoli. Che finisce nelle mani di un presunto affiliato alla ’ndrangheta. Residenze San Carlo: 85 appartamenti, 6 negozi, 71 box auto. Mirante vuole tutto e per farlo pretende le quote di Impellizzeri. La vittima racconta:  «Mi diceva sempre che era legato a una potente famiglia calabrese. Gridava: ti sparo in mezzo agli occhi, ti spacco le gambe». Non se la sarebbe presa solo con lui: «Fece riferimento a mia sorella, ammalata di sclerosi multipla. Diceva: non avrà neanche più bisogno della sedia a rotelle, perché l’ammazzo prima! E ancora: io sulla sedia a rotelle ci metto tuo cognato e poi facciamo fuori pure lui!».

Secondo Impellizzeri «lui (Mirante) aveva preso accordi con il titolare della società Edilrivoli che gli aveva appaltato i lavori e prevedeva il mancato pagamento delle maestranze e l’utilizzo di materiali scadenti». Affermazione che trova riscontro oggi in un procedimento di risarcimento intentato da alcuni inquilini degli alloggi nei confronti dell’esecutore dei lavori: «Già dopo due anni l’intonaco esterno cadeva a pezzi».

Alla fine Impellizzeri cede e finisce in uno stato di profonda depressione. Scappa addirittura in Tunisia per paura di ritorsioni «verso di me ma soprattutto verso i miei familiari». La fotografia di Mirante che esce dall’ordinanza (ma che dovrà essere confermata o smentita in dibattimento) è questa: un caterpillar che  rimuove con la minaccia e con metodi mafiosi tutti gli ostacoli davanti a sé. Ricapita anche nel caso di Mauro Esposito, architetto. In principio è lui il direttore lavori del cantiere di Rivoli, ma a un certo punto si sarebbe opposto a una richiesta di variante da due milioni di euro prospettata da Mirante. Un aumento di costi di fronte al quale Esposito si sarebbe messo di traverso. In concorso con una sedicente avvocato, Gabriella Toroddo (una sorta di consulente finanziario), Mirante avrebbe minacciato Esposito fino a indurlo in uno stato di profonda prostrazione. Il direttore lavori, all’epoca, telefona a Ivo Agnolin, dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Rivoli. Gli dice che Mirante sta tentando di estrometterlo dal cantiere, «che è un mafioso e un ricattatore». Scrivono i giudici: “Agnolin metteva immediatamente a conoscenza Mirante dell’accaduto e questi, appresa la notizia, dapprima incontrava il presidente della “Edilrivoli” riferendo di avere urgenza di parlargli, e subito dopo contattava Mario Audia, il capo dei crotonesi: tentando di dissimulare il reale motivo della chiamata e, utilizzando un linguaggio criptico: gli serviva qualcuno che minacciasse Esposito (che si è costituito parte civile nel processo) per farlo smettere di parlare”. L’ex direttore del cantiere non si rivolge subito alle forze dell’ordine e tenterà anche di difendersi dalle pressioni chiedendo però l’aiuto di Urbano Zucco, figura carismatica della ’ndrangheta (“che avevo conosciuto casualmente al saggio di danza di mia figlia” racconterà Esposito ai magistrati per motivare l’enorme anomalia di non aver comunicato i fatti all’autorità giudiziaria se non dopo alcuni mesi). Zucco chiederà l’aiuto di un altro capo assoluto, Adolfo Crea. Quando Zucco verrà arrestato Esposito “si renderà conto di chi erano realmente i personaggi e si rivolgerà ai carabinieri”. Intanto i costi del cantiere, negli anni, gonfiano e raggiungono l’astronomica cifra di 15 milioni (5,4 in più della base iniziale). Per questa vicenda Mirante è indagato insieme ad altre cinque persone per truffa in un’altra indagine sempre a cura del Ros.

Che Mirante fosse ben inserito nelle dinamiche della ’ndrangheta torinese, lo si capisce – secondo i pm – anche perché ad aprile 2011 è al corrente del fatto che a breve succederà qualcosa a livello giudiziario. Ne parla al telefono con la moglie e le dice: «Dobbiamo allontanarci da questa gente, tra un po’ li indagano tutti». Dieci giorni prima i carabinieri avevano intercettato anche Adolfo Crea che parlando con uno dei crotonesi considerati affiliati alla ’ndrina diceva: «Ho abboccato compare (mi hanno fregato), tra poco mi arriva (la misura cautelare ndr)…è sicuro». Due mesi dopo, la notte dell’8 giugno sarebbero scattate le manette per 153 affiliati alla ’ndrangheta: era la notte di Minotauro.