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Titti torna a casa: «Ferita ma indomita»
L'attivista No Tav bruzolese coinvolta negli scontri di fine febbraio

 

di Paola Meinardi da Luna Nuova del 16/03/2012 – pag. 15

 

Bruzolo - Titti Giorgione è tornata casa sabato, dopo una settimana di ricovero in ospedale a causa della frattura multipla alla caviglia sinistra che si è procurata nel corso degli scontri tra No Tav e forze dell'ordine al Vernetto di Chianocco a fine febbraio. Seduta sul suo divano, con la gamba in­gessata e una discreta collezione di lividi che stanno passando dal blu al giallo, racconta la sua esperienza e come abbia raffor­zato ancora, se possibile, le sue convinzioni.

 

Titti ha 54 anni, abita a Bruzolo da 12 anni, ed è ausiliaria alla clinica Pinna Pintor di Torino. E' una persona tranquilla e genero­sa, ma altrettanto caparbia. Ama profondamente gli animali ed è vegetariana. Alla lotta contro la Torino-Lione, Titti ha dato anima e corpo negli ultimi dieci anni, partecipando a un'immensità di incontri, marce, cortei, manifesta­zioni, presidi. La sua contrarietà al Tav l'ha maturata alle assemblee. Prima di trasferirsi qui, sapeva a malapena di cosa si trattasse.

 

«Vorrei ringraziare chi mi ha tirato fuori da quell'inferno» esordisce. Non si comincia con i ringraziamenti, di solito. «Invece io voglio cominciare da lì, perché non so quante botte avrei ancora preso se non fosse stato per loro. Tre persone le conosco, Paolo, Enrico e Nilo, ma ci sono altre persone che mi hanno preso e portato via. Sono stati fantastici e se non era per loro...».

 

Titti comincia con il racconto di quella giornata. «Facevo parte di quelli che hanno fatto il sit-in sull'autostrada. Quando abbiamo visto arrivare quella moltitudine di agenti ho avuto un attimo di timore. Siamo stati portati via dall'autostrada di peso ma, nel mio caso, gentilmente e poi ci sono stati chiesti i documenti per l'identificazione. Poi, siamo rimasti lì, proprio di fronte alle forze dell'ordine, sullo svincolo, tutti insieme».

 

Il giorno si fa sera e, improv­visamente, partono le cariche. «Non è che ci sia stato un evento scatenante. A un certo punto si sono schierati e ci sono stati due assalti soffocanti. Eravamo gli uni di fronte agli altri e c'erano persone di ogni età. D'un tratto sono cominciati i lanci di acqua urticante dagli idranti, le man­ganellate in testa, le spinte e i la­crimogeni. Pian piano cercavamo di defluire, per non calpestarci, e intanto ci manganellavano. A un certo punto c'è stata una spinta più forte delle altre e sono caduta e mi sono rotta la caviglia. Se non fosse stato per Paolo che si è messo sopra di me per proteggermi avrei preso ancora un sacco di botte. Le ha prese lui per me. Gli agenti mi gridavano 'Signora se ne vada da qui' ma io non potevo muovermi. Poi, qualcuno tra i manifestanti mi ha preso, portato via e caricato in macchina».

 

Stare in prima fila ha il suo prezzo, ma perché starci? «Io voglio ospedali, scuole, servizi. Sono arrabbiata con chi vuole buttare via tutti questi soldi per un 'opera inutile e devastante. Soprattutto perché sono pendo­lare sono arrabbiata, perché vedo ogni giorno cosa vuol dire usare il treno per andare a lavorare. La lotta No Tav è una lotta popolare, che appartiene a tutti, non si può delegare. Indipendentemente dall'età bisogna esserci».

 

Generalmente alle forze del­l'ordine ci si rivolge in caso di bisogno. Cosa scatta nella propria mente quando si vivono di persona le cariche? «Questa cosa la vivo malissimo perché è un punto di riferimento che non esiste più. Ho capito che di fronte ho avuto persone che rispondono agli ordini e a cui non interessa chi hanno davanti. Non capisco come si possa picchiare a freddo, così, non lo capisco. Mi danno un ordine? Ok, spingo e cerco di avanzare ma senza infierire. Per lo meno, io fossi al posto loro farei così. Invece andavano a cercarli nei bar, nelle case. Non ha senso. E non ha senso quello che è successo a Luca e spero che qualcuno paghi per questo».

 

Hanno fermato, per qualche mese, il corpo di Titti, ma il suo spirito? «Non hanno certo fiac­cato la mia combattività, anzi, se possibile l'hanno rafforzata. Ma ho dimenticato i ringraziamenti a tutto lo staff dell'ospedale di Susa. I piccoli ospedali di pro­vincia sono una ricchezza per la loro umanità e il loro calore. Diciamolo».