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Falcone e i massoni

di Ferdinando Imposimato [01/09/2011] http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=437


L'ultima sentenza della Cassazione contro “Aiello Michele ed altri”, la cosiddetta sentenza Cuffaro, offre un altro importante tassello alla verità su quella che impropriamente è stata definita, in un linguaggio giornalistico fuorviante, “la trattativa” tra Stato e Mafia. Tale linguaggio induce a ritenere che lo Stato abbia “trattato” per impedire che venissero commesse altre stragi oltre quelle che avevano già insanguinato Palermo, Milano, Roma e Firenze. In questo caso, chiunque dovrebbe riconoscere che il tentativo di fermare la mano omicida di Totò Riina e complici, discutibile sul piano morale, era apprezzabile al fine di evitare altre stragi dopo quelle già inflitte allo Stato e ai suoi massimi rappresentanti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e alle loro scorte di uomini e donne coraggiosi.
Ma i fatti, a ben vedere, stanno in maniera molto diversa. E questo risulta in modo plastico dalla sentenza dell'Addaura, cui segue la sentenza Cuffaro, opera di quel maestro di diritto ed inflessibile garante di legalità che è il giudice Antonio Esposito, relatore di entrambe le sentenze. Invertendo una ormai superata tendenza a vanificare il prezioso e duro lavoro dei magistrati di merito, negli ultimi tempi la Suprema Corte ha riconosciuto la legittimità e la fondatezza delle sentenze dei magistrati di Palermo e di Caltanissetta su due vicende cruciali nella lotta alla mafia.
La sentenza dell'Addaura è importante perchè riguarda non solo l'ex vertice della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, resosi responsabile della propalazione di notizie riservate svolte per la cattura di due feroci assassini come Totò Riina, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, ma anche altri importanti uomini delle istituzioni, che hanno disonorato i gloriosi corpi di appartenenza, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Polizia Municipale, corpi che hanno dato un enorme contributo di sangue per il ripristino della legalità.
Passando alla sentenza Cuffaro, è impressionante la parte in cui si fa riferimento alla rete di militari che, infiltrati nei gangli vitali degli uffici del pm e della Dia, fornivano un ininterrotto flusso di informazioni ai capi di Cosa Nostra, mentre cadevano uomini dello Stato e collaboratori di giustizia, fondamentali nella ricerca della verità. Tutto ciò con lo sperpero di una quantità enorme di pubblico denaro per la corruzione di medici e funzionari delle aziende sanitarie di Palermo.
La sentenza scritta da Antonio Esposito, accolta con esemplare correttezza da Cuffaro, affonda il bisturi nella piaga purulenta degli appalti pubblici e dei lavori privati, gestiti per anni dai tre capi di Cosa Nostra sia in Sicilia che nelle altre regioni italiane, a danno delle piccole e medie imprese. E fu proprio per avere messo il naso negli appalti delle grandi opere pubbliche, complici alcuni insospettabili imprenditori del Nord, che venne decretata la condanna a morte di Giovanni Falcone e Salvatore Borsellino. Ma sarebbe un errore isolare la vicenda Cuffaro, che è di una straordinaria gravità e pericolosità, dalla strage dell'Addaura. E dalla ricostruzione che la stessa Suprema Corte fa, sempre attraverso uno dei magistrati simbolo della lotta alla mafia, rendendo un prezioso servizio alla verità.


MAGISTRATI CORAGGIOSI
La sentenza Cuffaro arriva in un momento in cui le cronache si occupano di qualche magistrato infedele ed arrogante, smascherato grazie al prezioso lavoro della Procura della Repubblica di Napoli e dei suoi pm di punta Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli, i quali hanno portato alla luce scandali che erano stati insabbiati e giacevano dimenticati, archiviati in altri uffici giudiziari. Cosi' come siamo grati al pubblico ministero Paolo Ielo per aver ripreso le indagini su filoni collaterali della P4, sempre al servizio della legge, e non di questa o quella parte politica.
Tornando alla cosiddetta trattativa, ricordo che il processo per la strage dell'Addaura, del 21 giugno 1989, fu quello in cui si profilò la concreta possibilità di conoscere autori e mandanti istituzionali, associati a Cosa Nostra, di un progetto criminale diretto ad eliminare alcuni magistrati siciliani e di altre città d'Italia, impegnati nella ricerca della verità sui rapporti tra mafia, politica e massoneria. Un patto che, secondo ciò che mi disse Tommaso Buscetta nel corso degli interrogatori svolti assieme a Falcone, risaliva alla fine degli anni sessanta, quando il principe Junio Valerio Borghese strinse un accordo segreto con Cosa Nostra per riportare la destra al potere, stroncando ogni tentativo di rinnovamento avviato in quegli anni con i governi di centro sinistra. Di questa intesa scellerata venne a conoscenza il giornalista Mauro De Mauro, subito eliminato da Cosa Nostra, prima che potesse rivelare l'accordo. Nel corso degli anni settanta-ottanta Giovanni Falcone imboccò anche lui la pista mafia-massoneria-servizi segreti quando indagò su Michele Sindona e dopo che, occupandosi dei corleonesi Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina, scopri' “malauguratamente” la loggia massonica Camea, che comprendeva industriali, insospettabili professionisti e criminali del calibro di Pierluigi Concutelli, assassino di Vittorio Occorsio.
Fu quello il momento in cui Falcone cominciò a morire. La sua “pericolosità” per il sistema divenne intollerabile quando uni' le sue indagini a quelle dei giudici svizzeri Carla Del Ponte e Carlo Lehmann, della giurisdizione sottocenerina della Confederazione elvetica. In quella vicenda si inserirono i servizi segreti, che sparsero la voce secondo cui Falcone si era preparato l'attentato per fare carriera. Notizia che produsse effetti devastanti per l'immagine e la credibilità di Giovanni Falcone. Si profilò fraudolentemente e poi si consolidò, da parte di poteri allora occulti ma oggi più chiari, l'ipotesi che Falcone fosse stato l'ideatore e il mandante di una finta strage che egli avrebbe organizzato a proprio vantaggio per finalità di carriera. Tale ipotesi, mostruosa e contraria alla verità, non venne adombrata in termini chiari dai nemici di Giovanni Falcone, ma fu accreditata da una serie di prese di posizione proprio di organi investigativi delle istituzioni, che avevano da tempo sotto tiro il magistrato. Ma non solo lui. Altri giudici e pubblici ministeri erano nel mirino dell'associazione criminale fra massoneria, servizi segreti, mafia e politica. Tra loro c'erano Paolo Borsellino ed altri magistrati che indagavano in varie città d'Italia. La cui unica, imperdonabile colpa, era quella di voler accertare la verità su trent'anni di strategia della tensione e sulle collusioni, certamente esistenti, tra Cosa Nostra, poteri massonici, eversione nera e politici al potere. A quell'epoca esistevano già le condizioni per ritenere provato che servizi segreti, mafia e politica, con il collante della massoneria, piduista e non, fossero in sinergia per stabilizzare la classe politica immarcescibile che governava da anni.
Ma c'era anche un'altra ragione che spinse ad accelerare i tempi delle stragi: Falcone e Borsellino stavano accertando collegamenti fino ad allora inimmaginabili tra Cosa Nostra, enti pubblici potentissimi, come l'Iri, e imprese che fungevano da schermo nel settore di appalti per centinaia di migliaia di miliardi e nelle grandi opere pubbliche, tra cui la Terza corsia della autostrada del Sole, l'Alta Velocità, i grandi lavori di ricostruzione dei centri storici in Sicilia e Campania. Lavori che prevedevano investimenti per circa trecentomila miliardi di lire.


CAPPUCCI E GRANDI OPERE
L'aspetto sconvolgente emerso dalla indagine era il legame fra alcune grandi imprese del Nord, come la Calcestruzzi del gladiatore Raul Gardini, l'Iri, che era la più grande impresa pubblica, e molte aziende private che facevano da copertura a Cosa Nostra. Gli scandali venivano sistematicamente insabbiati perchè i maggiori quotidiani nazionali - tra cui il Corriere della Sera - erano nelle mani di alcune grandi famiglie di imprenditori, che erano a loro volta gli stessi general contractor delle opere pubbliche. Queste holding, senza muovere un dito, percepivano grosse fette delle somme stanziate, affidando in subappalto i lavori ad imprese della mafia, della 'ndrangheta e della camorra. Il 90% del denaro pubblico investito nei grandi appalti veniva diviso tra politici, mafiosi e faccendieri, mentre solo il 10% era destinato alla realizzazione dell'opera. Si trattava di una forma di corruzione legalizzata, che beneficava destra, sinistra e centro, gravando in modo insopportabile sulle spalle dei cittadini ignari. La conseguenza era - ed è rimasta tale anche negli anni successivi fino ad oggi - che le opere realizzate erano “eterne” e largamente imperfette e spesso gli operai erano sottopagati e non garantiti nei loro diritti fondamentali. E spesso erano costretti a dure manifestazioni di protesta legittima, prontamente represse da squadre di mafiosi che garantivano la pace sindacale, anche per contro delle imprese pubbliche.
Grazie alla magistrale sentenza della seconda sezione della Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, sulla tragedia dell'Addaura si è saputa la verità ed è da queste due sentenze che bisogna partire se si vuole rompere il velo di omertà che ancora avvolge il patto scellerato, non la “trattativa”, tra mafia, servizi segreti, politici oggi al potere, e massoneria. Senza che nessuno dei resposabili sia stato arrestato e punito. Falcone era assediato da sospetti infondati, propalati ad arte da mafiosi e loro alleati. Era addirittura accusato di favorire i mafiosi che collaboravano con lui. Fu inquisito dal Csm, che lo interrogò. L'accusa era di non avere, nonostante le prove - che non c'erano - arrestato alcuni imprenditori mafiosi.
Egli lasciò gli uffici di Palermo e si trasferi' a Roma, alla direzione degli Affari Penali. Ma il “vizio” di indagare su mafia e massoneria non lo abbandonò.
Nel 1993 ad una domanda di un giornalista del Sabato sulle inchieste di Falcone, risposi: «Giovanni Falcone è stato ammazzato per quello che aveva fatto, che stava facendo e che voleva fare, contro i tanti poteri occulti intrecciati, usando la Procura Antimafia, che era una sua creatura». E ancora: «L'Italia è anche il paese della strategia della tensione, dello stragismo e di Gladio: ci sono tante pagine di verità ancora da scrivere. Se ripercorriamo certi sentieri, possono aprirsi squarci di luce sulla storia recente e passata». A quel punto il giornalista mi domandò: «Intende dire che Falcone voleva occuparsi anche di Gladio?». Risposi: «Si', voleva occuparsi anche di Gladio. Conoscevo Giovanni Falcone. Sono stato suo amico fraterno e collega per vent'anni. So bene come la pensava su queste cose».


LA LETTERA ALLA ANSELMI
Ma la morte di Falcone ebbe una accelerazione dopo la lettera dell'8 novembre 1982 rivolta al presidente della Commissione d'inchiesta sulla P2, Tina Anselmi. «Con riferimento alla nota n. 850 /c P2 del 15 ottobre 1982, pregiomi comunicare - scriveva Falcone - che nel corso di indagini su organizzazioni mafiose siciliane, è emerso che alcuni personaggi, appartenenti a cosche mafiose, avevano operato per il trasferimento di Michele Sindona da Atene a Palermo nell'agosto 1979: trattasi di Giacomo Vitale e di Francesco Foderà, entrambi latitanti. Costoro fanno parte della nota Loggia Camea, il cui capo è il dott. Gaetano Barresi, arrestato su mandato di cattura dei giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo».
Sono trascorsi 20 anni da allora. Ercole Incalza, da me denunziato nella relazione sulla Tav per la questione dei grandi appalti a Cosa Nostra e alla Camorra, ha fatto carriera. Mentre si riparla delle stesse indagini compiute da Falcone e Borsellino. E apprendiamo - ma lo si sapeva da allora - che la strage dell'Addaura, organizzata da mafia e agenti nemici di Falcone, fu evitata grazie al coraggioso intervento di due uomini fedeli al magistrato: Nino Agostino, che scopri' collusioni tra poliziotti e mafiosi, ucciso assieme alla moglie; ed Emanuele Piazza, collaboratore del servizio segreto civile, strangolato il 15 marzo 1990, pochi mesi dopo l'attentato dell'Addaura. Una infinità di depistaggi e di omicidi impedirono l'accertamento della verità.

Le verità sull’Addaura

di Ferdinando Imposimato [02/06/2010] http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=304


Ci furono i servizi segreti e la massoneria nelle stragi di Capaci e via D'Amelio.
Quando nel 1984 incontrammo nella questura di Roma Tommaso Buscetta, appena giunto dal Brasile dove era stato arrestato da Gianni De Gennaro, Giovanni Falcone ed io facemmo l'impossibile per convincerlo a raccontare tutto sui legami tra mafia, politica, massoneria e poteri occulti. Ma lui, che pure collaborava a tutto campo, fu irremovibile: «non posso - disse - perchè lo Stato non è preparato ad affrontare un tema cosi' grave che ancora oggi coinvolge persone e istituzioni insospettabili».
Il tentativo di far parlare Buscetta fui costretto ad abbandonarlo, dopo la partenza per Londra e per Vienna. Ma Falcone lo prosegui', sia pure inutilmente. Buscetta non si lasciò convincere, pur avendo grande stima del magistrato di Palermo. Molti uomini delle istituzioni, dei servizi segreti, della politica e del governo del paese, legati a Cosa Nostra, erano saldamente ai loro posti di comando. Solo dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, Buscetta decise di rivelare i retroscena dei più gravi delitti di mafia e di fare i nomi dei politici, dei massoni e degli uomini dello Stato nemici di Falcone e di Paolo Borsellino.
Oggi capisco che aveva ragione Buscetta: nessuna delle verità che egli rivelò nel corso dei processi di Palermo e di Perugia fu confermata da sentenze di condanna. Le sue testimonianze precise e circostanziate sui legami mafia-politica-massoneria furono disintegrate. Nonostante le decine di conferme di altri mafiosi, che pure erano stati ritenuti attendibili per tutte le altre accuse contro i loro complici per omicidi e stragi. Nel 1992 Buscetta riprese a parlare davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, di cui facevo parte anche io, sia pure in posizione di isolamento, tanto che la mia relazione sull'Alta Velocità non venne mai discussa, neppure dalle commissioni presiedute da Ottaviano Del Turco e da quelle che seguirono.


OCCORSIO E I MASSONI
Ma la rivelazioni di oggi non inducono all'ottimismo. Quelle degli anni ottanta e novanta furono insabbiate. Davanti a due pubblici ministeri di Palermo Buscetta rivelò, nel dicembre 1994: «ad uccidere Borsellino è stata Cosa Nostra, ma le ragioni della strage vanno al di là degli interessi stretti della mafia». Il pentito chiari' che Borsellino stava venendo a conoscenza da Gaspare Mutolo di verità scottanti. Ma di quelle dichiarazioni non si fece nulla; i colpevoli restarono “ignoti”.
A maggio 1993, parlando con il giornalista Raffaele Lo Sardo del settimanale il Sabato sulla strage di Capaci, dissi cose che ancora oggi mi sorprendono. Parlai delle indagini che, come giudice istruttore, stavo conducendo con il pm Vittorio Occorsio su alcuni casi di sequestri di persona. Scoprimmo che alcuni terroristi e criminali erano appartenenti alla massoneria. Non mi resi conto della importanza del collegamento, ma Occorsio si'. E mori'. La mia condanna a morte fu pronunciata tre anni dopo. A quel tempo svolgevo anche indagini su Michele Sindona e P2, connesse con quelle di Falcone a Palermo. Ma Falcone era molto più avanti di me: aveva scoperto la loggia Camea di cui faceva parte Pierluigi Concutelli, tessera 4070, assassino di Occorsio.
Del resto, la scoperta della Loggia Camea a Palermo fu l'inizio della fine di Falcone, come egli stesso presagiva. Egli aveva capito che la massoneria era il collante dei vari poteri criminali con la politica e le istituzioni. Venne alla luce che il falso sequestro di Sindona - usato dal banchiere di Dio e dai complici mafiosi per costringere i suoi beneficati a salvare le sue banche - era stato organizzato da Cosa Nostra e da massoni: personaggi, come Joseph Miceli Crimi e Giacomo Vitale erano mafiosi e massoni. Quando mandai a Falcone, per competenza, il processo contro Michele Sindona, contro cui procedevo per simulazione di sequestro, il quadro divenne completo e allarmante.
Ma il pericolo per lui e per me aumentò a dismisura. Non ebbi la percezione di ciò che stava accadendo attorno a me. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini nel 1991 fu il mafioso Antonio Mancini, uomo della banda della Magliana. Costui disse che verso la fine del 1979, in occasione di un incontro conviviale, «in un ristorante di Trastevere, l'Antica Pesa o Checco il carrettiere», assieme a Danilo Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pellegrinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discuteva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, Danilo Abbruciati parlò ai commensali «di un attentato alla vita del giudice Ferdinando Imposimato». Dal discorso di Abbruciati - spiegò Mancini - si capiva che non si trattava di un'idea estemporanea: era evidente che erano stati effettuati dei pedinamenti nei confronti del magistrato e della moglie; che erano stati verificati i luoghi nei quali l'attentato non avrebbe potuto essere eseguito con successo. «Quando sentimmo il discorso che si fece a tavola, io e Toscano pensammo che l'attentato dovesse essere una sorta di vendetta per l'impegno profuso dal magistrato nei processi per sequestri di persona da lui istruiti e che avevano visto coinvolti i commensali, i quali parlavano del giudice Imposimato definendolo “quel cornuto che ci ha portato al processo”». «Successivamente - chiari' Mancini - parlando dell'attentato ai danni del giudice Imposimato, Danilo Abbruciati mi spiegò che, al di là delle ragioni personali che pure c'erano, aveva ricevuto una richiesta in tal senso “da personaggi legati alla massoneria”, dei quali il giudice Imposimato aveva toccato gli interessi».
Cosi' verbalizzò Mancini al giudice istruttore Lupacchini.

 

DUE AGENTI DEI SERVIZI
In seguito, durante le indagini su Giulio Andreotti per l'omicidio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accertò che alla riunione, nel corso della quale si era parlato dell'attentato a me, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari di cui Mancini fece i nomi: incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento nel processo Andreotti. Senonchè i due mi avvicinarono prima della sentenza dicendomi che «loro due non c'entravano niente con quella riunione» e che «c'era stato uno scambio di persone da parte di Mancini, altri due uomini del servizio avevano preso parte a quell'incontro in cui era stata decisa la mia condanna a morte». Ovviamente non riuscii a stabilire chi fossero i due agenti segreti partecipi della decisione. Restava il fatto che c'era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi della Magliana per eliminare, su ordine della massoneria, il giudice che istruiva il processo Moro.
Quanto a Falcone, era assediato da sospetti infondati, propalati ad arte da mafiosi e loro alleati. Era addirittura accusato di favorire i pentiti che collaboravano con lui. Fu inquisito dal Csm, che lo interrogò sulle sue “inerzie”. L'accusa era di non avere, nonostante le prove - che non c'erano - arrestato alcuni imprenditori vicini a Cosa nostra. Falcone lasciò gli uffici di Palermo e si trasferi' a Roma, alla direzione degli Affari Penali. Ma il “vizio” di indagare su mafia e massoneria non lo abbandonò.
Ad una domanda del giornalista del Sabato sulle inchieste di Falcone, risposi: «Falcone è stato ammazzato per quello che aveva fatto, che stava facendo e che voleva fare: contro i tanti poteri occulti intrecciati ai poteri collegati, usando la Procura Antimafia, che era una sua creatura». Domanda di Lo Sardo: «Per esempio?». Risposta: «L'Italia è anche il paese della strategia della tensione, dello stragismo e di Gladio: ci sono tante pagine di verità ancora da scrivere. Se ripercorriamo certi sentieri, possono aprirsi squarci di luce sulla storia recente e passata». Domanda: «Vuol dire che Falcone voleva occuparsi anche di Gladio?». Risposta: «Si', voleva occuparsi anche di Gladio». Domanda: «Come fa ad affermarlo?». Risposta: «Conoscevo Giovanni Falcone. Sono stato suo amico fraterno e collega per vent'anni. So bene come la pensava su queste cose».

MISTERI NEL SEGNO DI GLADIO
Gladio significava Servizi segreti guidati dai piduisti Giuseppe Santovito e Giulio Grassini, voluti, nel gennaio 1978, da Francesco Cossiga, ministro dell'interno, e Giulio Andreotti, presidente del consiglio. Che avevano inserito affiliati alla P2 ai vertici dei ministeri, sostituendo funzionari leali come il prefetto Gaetano Napoletano e il questore Emilio Santillo.
Ma la morte di Falcone ebbe una accelerazione dopo la lettera dell'8 novembre 1982 al presidente della Commissione P2, Tina Anselmi. «Con riferimento alla nota n. 850 /c P2 del 15 ottobre 1982, pregiomi comunicare che nel corso di indagini su organizzazioni mafiose siciliane, è emerso che alcuni personaggi, appartenenti a cosche mafiose, avevano operato per il trasferimento di Michele Sindona da Atene a Palermo nell'agosto 1979: trattasi di Giacomo Vitale e di Francesco Foderà, entrambi latitanti. Costoro fanno parte della nota Loggia Camea, il cui capo è il dott. Gaetano Barresi, arrestato su mandato di cattura dei giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo».
Paolo Borsellino, al momento della sua morte, stava proseguendo la ricerca della verità iniziata assieme a Falcone sugli stessi temi scottanti.
Sono trascorsi venti anni da allora. Ercole Incalza, da me denunziato nella relazione sulla Tav per la questione dei grandi appalti a Cosa nostra e alla camorra, ha fatto carriera. Mentre si riparla delle stesse indagini compiute da Falcone e Borsellino. E apprendiamo - ma lo si sapeva da allora - che la strage dell'Addaura, organizzata da mafia e agenti nemici di Falcone, fu evitata grazie al coraggioso intervento di due uomini fedeli a Falcone: Nino Agostino, che scopri' collusioni tra poliziotti e mafiosi, ucciso assieme alla moglie; e Emanuele Piazza, collaboratore del servizio segreto civile, strangolato il 15 marzo 1990, pochi mesi dopo l'attentato dell'Addaura. Una infinità di depistaggi e di omicidi impedirono l'accertamento della verità, quella verità che ancora oggi, nonostante il bel libro di Attilio Bolzoni e la coraggiosa inchiesta di Annozero, stenta a venir fuori.